Regia di Asaph Polonsky vedi scheda film
Pochi mesi fa ebbi modo di commentare un film israeliano dal titolo "Longing" presentato nella sezione "Giornate degli autori" della Mostra 2017 del cinema di Venezia. Il film era interpretato dall'attore di casa Shai Avivi. Un film che definii "il più strampalato" tra quelli visti al Festival. Ieri mi sono imbattuto nell'opera prima di Asaph Polonsky, uscita in Italia nella primavera del 2017, anch'essa affidata ad Avivi che grosso modo interpreta lo stesso ruolo ammirato nel lavoro "settembrino" di Savi Gabizon. I personaggi dei due film sono diversi, più pacato, elegante e risoluto l'Ariel di "Longing", più arrabbiato e trasandato l'Eyal di "Una settimana e un giorno". Ad accomunare i due profili, invece, sono la paternità e la perdita, ed è interessante come entrambi i film, a loro modo, parlino dell'elaborazione del lutto. Evidentemente è un tema molto caro alla cinematografia israeliana degli ultimi anni, forse perché le perdite sono state vissute in maniera spesso violenta e dolorosa nella storia ebraica recente. La settimana del titolo è la Shiva, ossia il periodo del lutto secondo il precetto rabbinico che inizia dopo la sepoltura. Durante la Shiva, normalmente, amici e parenti si presentano ai famigliari addolorati portando loro in dono il cibo e le parole di compassione previste dalla tradizione. Per Eyal e la moglie Vicky la Shiva sta per finire con gli ultimi riti al cimitero che Eyal decide di disertare facendo trasparire tutta l'irrequietezza accumulata nei giorni di precetto e resa manifesta nella tagliente risposta che annichilisce le parole ossequiose proferite dal vicino. "Soffrirò ancora" dice Eyal agli ormai ex amici prosciugando di qualsiasi significato i loro propositi di pace, mentre Vicky, più calma ma altrettanto afflitta, anela la quotidianità dei giorni migliori tingendosi, finalmente, i capelli e sistemando casa. Il giorno successivo è quello che dovrebbe segnare il ritorno alla normalità ma Vicky viene rispedita a casa dalla preside della scuola mentre Eyal passa la giornata con Zooler, il figlio dei vicini, che in qualche modo riempie la casa degli schiamazzi tipici dell'adolescenza... Polonsky è veramente bravo a maneggiare l'argomento. Riesce, già in fase di scrittura, a combinare felicemente un tono più doloroso e nostalgico seguendo le azioni di Vicky, con un tono scanzonato e pazzerello che accompagna le peregrinazioni di Eyal tra cimiteri e case di cura. Nel suo intento equilibratore il Polonsky sceneggiatore si avvale di alcune figure come il giovane figlio del vicino e la bimba dell'ospedale che conferiscono brio alla narrazione, mentre la figura dolente dell'uomo che deve seppellire la sorella accanto al figlio della coppia spinge il protagonista verso il necessario processo di interiorizzazione della tragedia.
Ma anche il lavoro di regista è sapientemente eseguito. Alcune sequenze ben riuscite, a mio avviso, lo dimostrano. Nella prima un imbranato Eyal tenta in tutti i modi di rollare una canna con effetti oltremodo esilaranti. Nella seconda, Vicky si lascia andare ad un timido e sommesso pianto liberatore durante una seduta d'igiene dentale. Nel mezzo, invece, una scena agrodolce in ospedale in cui la combriccola guidata dal protagonista esorcizza la malattia fingendo un intervento chirurgico triste e divertente allo stesso tempo. L'ironia insomma è l'unica medicina che combatte e allieva il dolore più lancinante. Meglio se è quella ebraica votata fin dai secoli biblici a lenire le sofferenze del genere umano.
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