Regia di Stanley Kubrick vedi scheda film
Stanley Kubrick ha preso il genere storico e l'ha adottato ai suoi stilemi e alla sua tradizionale inventiva stilistica. Il risultato è stato uno dei suoi più grandi capolavori, di grande respiro e di quelli in cui l'impatto visivo è il più forte e non riprende alcun tipo di shock visivo (come facevano altri suoi capolavori come "Shining", "Full Metal Jacket" e "Eyes Wide Shut"). Per raccontare la storia di ascesa e discesa di Barry (Lyndon da sposato) Kubrick sceglie atmosfere dense e oniriche, e specie nella seconda parte "dipinge" i suoi fotogrammi con una grazia degna del miglior Sokurov. La scelta del non utilizzare luci artificiali, ma solo quelle che provengono dalle candele o dalle luci comunque reali, permette di conferire alle sue immagini una fuliggine e uno strato di "antico" che rende la pellicola storica ma anche profondamente sperimentale, un'elaborazione del passato umano riletto e esplicitamente reinterpretato a favore di una parabola sull'ambizione e sull'insoddisfazione umana. In questo senso si rivela funzionale la faccia inespressiva di un Ryan O'Neal che non è più né innamorato ("Love Story") né in balia di una pazza ("Ma papà ti manda sola?"), ma è in balia di sé stesso e della propria voglia di prevalere, di primeggiare, di oltrepassare una hybris umana che si ripete in tutte le manie d'onnipotenza della storia umana, e di subire com'è ovvio, la nemesis divina, una vendetta che lo fa tornare in basso, nella sua condizione originaria, come un essere in continuo divenire, come se le sue ambizioni avessero preso vita e avessero condotto la loro breve vita crescendo e deperendo come un essere umano, come se non ci fosse stato nemmeno un momento di stasi. Questa vivacità psicologica e narrativa si oppone in maniera straniante e interessantissima alla lentezza di certe scene ipnotiche e brillanti, ed è come se riproponesse il dualismo eterno fra particolarismo dell'individuo e universalismo della storia, così che la storia diventa il dio vendicativo che punisce la tracotanza di un semplice uomo che vuole raggiungere la divinità-tipo del XVII secolo, la ricchezza e la nobiltà. Kubrick va oltre le semplice condizioni e differenziazioni sociali, parla direttamente all'uomo e alla sua mostruosa fallibilità. Non è un reazionario che ritiene più conveniente l'immobilismo sociale, senza la possibilità dell'arricchimento, ma lancia un'accusa letale ai falsi miti che secondo l'uomo porterebbero alla felicità (in cui può trovarsi un riferimento all'ingenuità dell' "American Right of Happiness").
L'amore perde valore, la famiglia perde valore, l'uomo si lascia andare in un oblio di mastodontica profondità che maschera con l'eleganza e l'abbondanza. A tal proposito decadenti e corrosive le immagini di salotti immobili e fumosi, con i colori sfumati della pittura illuminista.
Tra i meno amati del regista, è uno dei film più duri e potenti della storia del cinema.
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