Regia di Stanley Kubrick vedi scheda film
Scoperto in età adolescenziale, Barry Lyndon mi ha sempre trasmesso un sentimento di amore accompagnato però ad una certa freddezza. E' superfluo spendere ulteriori lodi nei confronti del lavoro eseguito da Kubrick in termini di tecnica e ricostruzione storica: la fotografia di questo film ha fatto storia (a parte che è difficile individuare un film di Kubrick che non abbia amplificato il proprio valore proprio grazie a delle riprese fuori dal comune, da Orizzonti di gloria ad Arancia meccanica per passare da 2001: Odissea nello spazio); altrettanto impeccabile è l'attenzione posta ai costumi, alla descrizione della società dell'epoca ad una colonna sonora che integra pezzi di musica di compositori dell'epoca (con qualche delizioso anacronismo).
In una sorta di roadmovie del XVIII secolo, ma è difficile rendersene conto, seguiamo le vicende di un giovane idealista irlandese che lascia presto da parte gli ideali amorosi per spingersi, dopo varie traversie personali e militari, ad accedere nel ceto sociale della nobiltà, sfruttando il proprio fascino nei confronti della contessa di Lyndon contraendo quindi un remunerativo matrimonio d'interesse. La descrizione del classismo e dell'immobilismo della società in cui il prodagonista cerca di fare breccia, è straordinaria, Barry viene difatti descritto come persona dal grande talento, espresso in più occasioni, tale dal riuscire ad ottenere la posizione ambita, ma non sufficientemente scaltro dal mantenerla e farla sviluppare. Comprendiamo quanto prima che l'astio con il figlio adottivo Lord Bullington sarà una spina nel fianco, ma ancor più emblematico il vortice senza fine di spese e finanziamenti in cui Barry si cimenta al fine di perorare la propria causa per l'acquisizione di un titolo nobiliare (e quindi garantire a sè stesso ed in particolare al proprio figlio Bryan di rientrare nell'asse ereditario della moglie) che giunge a dissestare l'enorme patrimonio che ha acquisito dalla moglie. Infine emerge in un susseguirsi di disgrazie il vero volto della società che Barry ha frequentato: l’incontro combinatogli con il sovrano si tramuta pressoché in una farsa, vanificando gli incalcolabili sforzi finanziari di Barry ed infine uno scontro aperto con Lord Bullington ad un concerto presso la sua magione, fa voltare le spalle a tutti i supposti amici e conoscenti, che iniziano immediatamente ad ignorarlo contrariamente ai creditori che iniziano a seppellire la famiglia con richieste sempre più stringenti, portando quindi un discredito incalcolabile. Altrettanto amaro il finale con Barry, ormai legato alla sola madre che, mutilato e sconfitto deve rientrare nel contesto da cui era partito anni prima.
Tutti questi elementi come detto, sono eccellenti e avvolgono lo spettatore in uno scenario in cui serpeggia il classismo e l’ipocrisia, peraltro atteggiamenti che, per quanto si possa provarne simpatia, anche il protagonista ha utilizzato nel suo percorso da parvenu, tuttavia dall’altra parte Kubrick sembra voler applicare alla propria regia la stessa rigidità del contesto in cui si muove: tante sequenze sono oggettivamente lunghe, è vero che molte scene vengono realizzate come dei dipinti, in un insieme di luci e colori stupefacenti, ma alla lunga i lenti zoom all’indietro appaiono un po’ ripetitivi. Ma non sono forse questi i punti che mi hanno lasciato più perplesso, quanto le seguenti caratteristiche: l’utilizzo costante della voce narrante (nella versione italiana il mitico Romolo Valli) l’ho sempre un po’ considerata come un espediente per spiegare ciò che il cinema potrebbe esplicitare con le immagini, soprattutto se usata in modo invasivo e per spiegare passaggi non così complessi (si pensi che viene utilizzata persino per chiarire l’incontro fortuito tra Barry ed una bella contadina tedesca), cosa che ad altri registi viene spesso fatta pesare. Ma ancor più difficile da spiegarmi sono alcuni passaggi con delle soluzioni di sceneggiatura banalotte o dei dialoghi davvero stucchevoli, entrambi questi elementi li ho trovati nelle sequenze relative all’amato figlio Bryan con un insopportabile dialogo in cui il bambino fa i capricci chiedendo di “dormire con le candele accese” che sembra uscita da una serie TV qualunque modificando la richiesta di tenere accesa la luce della lampadina con delle candele, altrettanto scontato l’epilogo circa l’uso del cavallo da parte del bambino.
Insomma per quanto celebrato, riesco a condividere l’eccezionale lavoro tecnico e l’ottima rappresentazione storica della vicenda, così come l’approccio asciutto che si chiude in un finale privo di poesia; per contro rimango ancora oggi stupito di alcune soluzioni sostanzialmente “facili”.
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