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Downsizing - Vivere alla grande

Regia di Alexander Payne vedi scheda film

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La recensione su Downsizing - Vivere alla grande

di Spaggy
4 stelle

In un futuro prossimo, in un laboratorio norvegese, viene scoperta una rivoluzionaria tecnologia in grado di rimpicciolire ogni forma organica e, dunque, l’uomo stesso. Le proporzioni raggiunte dai primi esperimenti che coinvolgono 36 soggetti volontari recitano freddamente 2744:1, ovvero 1,80m:0,129m. Per dirlo in parole semplici, un uomo di 1 metro e 80 viene rimpicciolito fino a raggiungere un’altezza di 12,9 cm. Come ogni scoperta scientifica che si rispetti, al progresso si associa anche una motivazione etica: rimpicciolendo l’uomo, si possono rimpicciolire le città, risolvendo in maniera molto pratica il problema della sovrappopolazione, dello smaltimento dei rifiuti e della drastica diminuzione delle risorse terrestri. In un attimo, per l’umanità intera si aprono nuovi scenari e nel giro di una decina di anni il 3% della popolazione fa ricorso alla miniaturizzazione, scatenando nuovi interrogativi e quesiti su quanto valga un essere umano ridotto. Una nuova minoranza si profila all’orizzonte: quanto vale un ridotto? Il suo voto ha la stessa valenza di un uomo normale? Le sue ridotte dimensioni non dovrebbero forse portare a una riduzione dei suoi diritti? Potrebbero i dittatori fondamentalisti in giro per il mondo usare il ridimensionamento per annientare per sempre i nemici? E i terroristi non potrebbero forse ridursi per mettere in atto sempre più attentati? Domande interessanti, sulla carta. Peccato che Payne decida invece di non trovarvi risposta per concentrarsi più sulla storia di un classico loser che nel nuovo mondo trova la sua possibilità (indotta) di riscatto. Per risolvere i suoi problemi finanziari, Paul, un uomo che non ha mai concretizzato nessuna delle cose che si è prefissato, propone alla moglie Audrey di sottoporsi alla procedura di rimpicciolimento. Facendosi convincere da un amico, scegli come futuro mondo in cui vivere quello proposto da Leisureland, una delle tanti società che dalla nuova tecnologia trae profitti e che cerca adepti come in una setta. Del resto, i rischi sono minimi: solo un caso su 225 mila non riesce. Perché non provarci, allora? All’ultimo minuto, dopo che la procedura per rimpicciolire Paul è stata completata, la moglie Audrey si tira indietro e opta per la conservazione delle sue dimensioni “normali. Per Paul, dunque, ciò comporta il dover affrontare il nuovo mondo da solo. I sogni di benessere promessi dalla nuova Pleasantville svaniscono però immediatamente: nel giro di poco tempo, Paul perde la casa dei sogni, i (fanta)dollari accumulati e la serenità, ritrovandosi a dover ricominciare da capo come nella precedente esistenza. Nell’America delle grandi opportunità, così come in ogni società che si rispetti, si fa presto a lasciare spazio ad emarginazione, a suddivisioni, a muri eretti per separare periferie dal centro e a (micro)criminalità. Sotto forma di un vicino di casa serbo e di una profuga vietnamita, Paul è così chiamato a confrontarsi con microcosmi differenti dal proprio, che lo portano presto a desiderare una nuova vita, prima che un finale a là Inga Lindström prenda il sopravvento con la più improbabile delle storie d’amore.

Trattando di temi come l’ecologismo, il progresso, l’emarginazione sociale e l’estinzione, si confronta in superficie con argomenti che avrebbero meritato maggior approfondimento e che continuano a dare stimoli che il regista ignora e tronca sul nascere. Lo spietato confronto che poteva nascere tra mondo normale e mondo in miniatura muore sul nascere e anche la dimensione degli effetti speciali ne risente: tutto ciò che visivamente poteva essere interessante si dilegua nella lunga seconda parte del film. Dal momento in cui Paul, un sempre più imbolsito Matt Damon, entra nella dimensione ridotta, il mondo normale scompare: della moglie Audrey, il personaggio forse più ambiguo e affascinante, non si sa più nulla, così come il resto della vita precedente dell’uomo. Tutto finisce quasi in macchietta e gli stereotipi iniziano a susseguirsi. Gli outcast diventano eroi e si paventa persino la folle idea di un reboot dell’umanità attraverso una camera blindata che funge quasi da arca di Noé solo per sottolineare come il selfmade man americano sia anche colui che, stanco del destino subito, lascia finalmente l’ignavia e il gruppo per decidere con la propria mente. Ragione o sentimento entrano in conflitto sul finale ma lo spirito buonista che attraversa il regista sa quale far trionfare. Del resto, la sua è una favoletta che vorrebbe atteggiarsi a racconto di formazione ecosociologica e che in nome del “cambiamento” finisce con l’essere ancorata a una tradizione narrativa incapace di uscire fuori da un percorso prestabilito in cui a trionfare è sempre e noiosamente l’amore. Con o senza malavita. Il pubblico, poi, non si lasci ingannare dal cast stratosferico: la Wiig scompare dopo pochi fotogrammi, la Dern ha un semplice cameo (così come Neil Patrick Harris) mentre Waltz e Kier vengono fisiognomicamente sfruttati per due personaggi comprimari ma non essenziali. Interessante, invece, la prova di Hong Chau, nei panni della profuga vietnamita che cambierà la vita del protagonista (e dell’umanità intera?).

Matt Damon, Kristen Wiig

Downsizing (2017): Matt Damon, Kristen Wiig

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