Regia di Ridley Scott vedi scheda film
Tornare sul luogo del delitto contempla opportunità e responsabilità. Da una parte, le aspettative sono elevate, dall’altra c’è una (fan)base da sfruttare, oltre che accontentare.
Vero è che Ridley Scott aveva già approcciato con successo l’argomento con Prometheus, ma in quel caso il collegamento con la saga iniziata dall’autore britannico nel 1979 con Alien, era quanto meno labile. Questa volta, la creatura creata da H.R. Giger ritrova spazio e tanto materiale è riconducibile ai suoi illustri predecessori, ma su un piano puramente identitario è deficitario, soprattutto non trova praticamente mai una consecutio tale da avvalorare una crescita definibile solida e organica.
Anno 2104, l’astronave Uscss Covenant subisce un brusco contrattempo mentre sta trasportando circa duemila coloni sul pianeta Origae-6. Con la dipartita del comandante, il comando del personale di bordo passa nelle mani di Chris Oram (Billy Crudup), proprio quando l’equipaggio capta un segnale radio proveniente da un vicino pianeta, che sembra possedere tutte le caratteristiche per essere abitabile dall’uomo.
Giunti sul posto per una ricognizione, una squadra di perlustratori in avanscoperta, condotta dallo stesso Chris e dalla Daniels (Katherine Waterston), si ritrova immersa in un microcosmo attrattivo ma che nasconde tra la sua vegetazione un pericolo imminente e sconosciuto, proprio per questo difficile da fronteggiare.
Ridley Scott, supportato dallo sceneggiatore John Logan (Il gladiatore, 007 - Skyfall) la prende ancora alla larga, memore con ogni probabilità del successo di Prometheus, cominciando da un quesito sulla creazione, strettamente legato a quanto avverrà in seguito, per poi inanellare una sequela sterminata di spunti riconducibili alla galassia dell’originale quadrilogia di Alien.
Così, il risveglio nella camera criogenica riporta la memoria ad Aliens. Scontro finale, benché questa volta sia assai più traumatico, tutta una serie di pericoli dello spazio profondo fanno pensare ad Alien e Alien 4 – La clonazione, un pianeta nuovo di zecca da esplorare è farina vicina al sacco di Prometheus e, senza voler rimanere inchiodati a decine di altri cavilli, la parte finale è una sorta di ibrido tra i primi due capitoli.
Già da queste veloci considerazioni, il materiale appare abbondante, in più, nel rispetto filologico, una buona fetta del discorso verte sugli androidi, con l’aggiunta (ritenuta) fondamentale del doppio, con le esigenze di diverse programmazioni e quindi approcci antitetici, con relativi agganci ad Aliens. Scontro finale, per il modello pronto a tutto pur di aiutare gli umani, e Alien per la nemesi con ben altri fini.
Premesso che gli aspetti interessanti sono molteplici, e il gioco dei collegamenti è una specie di stimolo secondario e nostalgico, inevitabile per un cultore della prima ora, Alien: Covenant assomiglia pericolosamente a un esercizio di unione dei puntini.
Meno brillante e potente sul piano dell’impatto visivo rispetto a Prometheus, nonostante il direttore della fotografia sia lo stesso (Dariusz Wolski), montato in sicurezza da Pietro Scalia, altro collaboratore abituale di Ridley Scott, Alien: Covenant instilla nell’aria l’ineluttabilità del fato e possiede anfratti arcani, seppur solo parzialmente tutelati, mostrando una volta di più la vulnerabilità dell’essere umano, quelle procedure non bypassabili e la curiosità intrinseca che lo rendono debole, per non dire inferiore, non mancando di procurare alcuni (non troppi per la verità) sobbalzi improvvisi.
Un altro ponte con il resto della saga è inevitabilmente rintracciabile nella protagonista. Ovviamente, ogni raffronto con l’Ellen Ripley della teutonica Sigourney Weaver sarebbe improponibile, ma anche la minuta Noomi Rapace aveva ben altro impatto rispetto a Katherine Waterston (indimenticabile in Vizio di forma e destinata a crescere in popolarità grazie ad Animali fantastici e dove trovarli), il cui personaggio è con ogni probabilità più succube alle inerzie del plot. Il resto del ricco cast è invece eterogeneo, con l’affidabile Billy Crudup, il comico Danny McBride, presente in vesti per lui insolite, una veloce comparsata di James Franco (insomma, ogni occasione è buona per rimpolpare una filmografia già sterminata), la volitiva Carmen Ejogo e lo squadrato Demian Bichir, tutti schiacciati e surclassati dalla classe di Michael Fassbender e da un doppio ruolo destinato ad accaparrarsi una gran fetta del proscenio.
In fondo, anche in queste scelte sembra imperare la regola dell’accumulo, per un itinerario decisamente variegato e poco selettivo, con qualche superficialità al seguito (anche se riconducibili a quanto già scritto sulla natura umana), che dispone di tante buone sequenze, legandole però con meccanicità, soprattutto nelle ultime battute, quando i ranghi vengono serrati denotando un po’ di fatica (anche nel montaggio). Se non altro, ritorna l’alieno più famoso e terrificante degli ultimi quarant’anni cinematografici, ma senza la compattezza, di tensione paralizzante (Alien) e azione compulsiva (Aliens. Scontro finale), che, almeno nelle sue due prime uscite, comportava una differenza abissale nei confronti della concorrenza.
Stavolta, occorre accontentarsi: a riuscirci, è un piacevole viaggio temporale.
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