Regia di Ettore Scola vedi scheda film
Il ritorno al passato appare una costante del cinema scoliano degli anni ottanta e le motivazioni non sono troppe difficili da individuare. Se Il mondo nuovo sfruttava il passato per capire il present,e La famiglia cercava nella memoria la possibilità di comprendere il corso del tempo e Splendor giocava con la nostalgia, Il viaggio di Capitan Fracassa ha un’essenza quasi felliniana perché la sua genesi è da rintracciare in un altro film di Scola, l’autoritratto La terrazza (era lo sceneggiato che il depresso dirigente Serge Reggiani non riusciva a farsi approvare). Con questo background di opera fortemente desiderato, il film offre l’occasione per riflettere sul cinema di Scola perché è anzitutto un film sul cinema: l’interesse per l’umano, determinato da un coro di poveri cristi in una perenne messinscena comica; l’incidenza della memoria suggerita dal fatto che buona parte della narrazione è dentro un flashback; il racconto picaresco di cui s’è alimentato molto cinema italiano popolare sfruttandone la fondamentale componente della fame; il bisogno di un po’ di onirismo per mandare avanti la realtà; il senso della comunità sia nella storia che nell’equipe di fedeli collaboratori (da citare almeno la splendida fotografia di Luciano Tovoli).
Al di là dell’effettiva riuscita del film, Capitan Fracassa è un’altra cerimonia metalinguistica, tra l’altro segnata dalla totale ricostruzione scenografia di Luciano Ricceri e Paolo Biagetti che sottolinea la cornice dichiaratamente teatrale – e i costumi sono di Odette Nicoletti, che fino ad allora aveva lavorato solo in teatro. Film costosissimo, ostico, tortuoso, di composizione e disgregazione, più problematico di quanto voglia far credere per l’osmosi tra finzione e realtà, trova nel Pulcinella di Massimo Troisi (che saggiamente andò a bottega da Scola per almeno un triennio) il deus ex machina che collega la grande tradizione popolare italiana con il modello francese, la tragedia della comicità all’educazione sentimentale: «una storia senza dolore non farebbe ridere».
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