Regia di Rupert Sanders vedi scheda film
"Una copia non è che un banale duplicato"
Questo pensiero espresso nel capolavoro Ghost in the Shell di Mamoru Oshii (1995), da parte del Burattinaio, la dice tutta sull'inutilita' totale di questo remake live action in salsa blockbuster ad uso e consumo del pubblico americano.
Rifare un capolavoro della storia del cinema come quello di Oshii colmo di profonda filosofia cybernetica e dilemmi sul rapporto uomo-macchina è da mongoloidi ed infatti gli americani che non brillano per acume hanno deciso di farlo ed il risultato è mediocre.
Si poteva riprendere il manga e sfruttare altri capitoli da adattare, oppure approcciarsi alle serie TV, opere interessanti con dialoghi intelligenti e con una buona dose di action; certamente più vicine ai gusti del pubblico ed invece hanno scelto di scontrarsi con il film del 1995, subendo una sconfitta devastante.
Il disastro era annunciato sin dell'ingaggio del regista, Rupert Sanders, il pezzente che ha girato l'orrido Biancaneve e il Cacciatore (2012), facendone un puerile film dark di stampo (pseudo)epico alla Signore degli Anelli; insomma nulla di più lontano da ciò di cui avrebbe avuto bisogno questo film, cioè un forte approccio intimo dato da un regista con gli attributi e dalla chiara impronta personale, non a caso che Mamoru Oshii durante la masterclass a Lucca qualche anno orsono, disse che alla regia vedeva molto adatto Michael Mann, ma ovviamente siccome quest'ultimo è un regista con uno stile visivo personale (che non si intende per tale un banale "contrasto tra bianchi e neri definito da un’idea estetica precisa", come purtroppo qualcuno che ha studiato cinema afferma per difendere Sanders ed il suo vuoto cinematografico"), giustamente non lavora ed ecco che Hollywood chiama in cattedra il primo che passa.
Scarlett Johansson aderisce al ruolo del maggiore della sezione 9 con impegno, soprattutto fisicamente e sono da rigettarsi come infondate le accuse di whitewashing in merito all'etnia del personaggio mentre Takeshi Kitano nei panni di Aramaki, anche se è un casting paraculo della produzione per difendersi da tali critiche è per lo meno una scelta interessante ed un volto orientale mai sfruttato in un film occidentale (l'attore parla in lingua Giapponese con sottotitoli per noi spettatori), in questo modo per lo meno si accentua un po' di globalizzazione all'interno di un film dove la rincorsa ai potenziamenti cibernetici, ha finito per annullare le distanze, ma tutto questo si perde in un film creato più come veicolo divistico per Scarlett Johansson che per necessità di dire qualcosa.
Il problema del film è che alla fine vediamo solo lo Shell, cioè il guscio, la mera superficie delle cose e mai ciò che è oltre. Mettiamo delle luci al neon gialle e viola un po' qui e un po' lì, un fondo stradale bagnato, edifici alti con fili penzolanti ovunque e pubblicità tridimensionali, il tutto condito da una fotografia laccata e pulita ed ecco che abbiamo delle immagini che possono anche essere costruite in modo professionale, ma mancano terribilmente di un'anima, poiché la regia non punta mai a penetrare nel ghost, l'intima essenza del proprio Io formato dalla conoscenza pregressa dell'individuo, che diventa una sorta di voce dal profondo dell'anima.
Puntare al ghost era la vera sfida, ma il film ha la presunzione di farlo adoperando inquadrature prese pari pari dal film del 1995, eppure qui sono del tutto svuotate del loro significato anche se alla fine sono identiche per come realizzate.
Quindi alla fine cosa ci resta? Un film castrato di ogni potenziale dove quei pochi contenuti, sono sbattuti in faccia in modo didascalico in modo da poter essere compresi da tutti mostrando così sempre più come la Hollywood attuale abbia uno spaventoso vuoto di idee non solo di storie, ma anche di registi blockbuster capaci almeno di avere una certa dimestichezza. Il film di Oshii fu un flop quando uscì, questo remake del 2017 costato 110 milioni ne ha incassati solo 170 milioni, quindi un fallimento oltre che critico, anche commerciale.
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