Quando era ancora lungi dall'essere girato di "Ghost in the Shell" avevano colpito due cose: la prima era stata la scelta di assegnare a Scarlett Johansson la parte della protagonista. Ricordiamo per chi non lo sapesse che la versione "live" del film d'animazione giapponese ha come protagonista il maggiore Mira Killian la quale dopo le ferite riportate in un missione suicida viene tenuta in vita grazie a un'innesto tecnologico che la trasforma in una sorta di cyborg. La seconda, conseguenza della prima, erano state le polemiche a proposito della scelta di far interpretare alla Johansson un personaggio originariamente appartenente a un'etnia (orientale) diversa da quella dell'attrice americana. Se il coinvolgimento della Johansson nel progetto in questione interessava in termini cinematografici poichè segnalava il consolidamento di uno status da eroina del cinema d'azione che fino a qualche sarebbe stato impensabile la polemica sul presunto razzismo legato al mancato utilizzo di un'attrice giapponese sembrava più che altro un modo come un altro per attirare l'attenzione sul film diretto da Rupert Sanders.
C'era poi da verificare, è questo era la cosa più importante ai fini della riuscita finale, se il restyling operato dalla produzione americana avrebbe retto il confronto con il modello originale: in particolare si trattava di vedere in che modo la linearità tipica dei prodotti mainstream si sarebbe inserita all'interno di una trama che nella versione originale firmata da Mamoru Oshii si prendeva non poche libertà alternando i diversi stati di coscienza e facendo ampio uso di detour ed ellissi narrative. Detto che non poteva essere altrimenti, e che quindi non stupisce di ritrovarsi di fronte a una storia depauperata degli aspetti di cui parlavamo poc'anzi, ciò che risalta è lo squilibrio tra una messinscena ispirata soprattutto per quanto riguarda la visionarietà del futuro in cui si muovono i personaggi e l'inconsistenza di una vicenda priva di sfumature (risibili quelle derivanti dalla duplice natura della protagonista) e incapace di andare oltre al semplice scontro tra buoni e cattivi. Convincente la Johansson, fotogenica e affascinante, meno tutto il resto a cominciare da Takeshi Kitano nel ruolo di ineffabile capo squadra.
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