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Ghost in the Shell

Regia di Rupert Sanders vedi scheda film

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La recensione su Ghost in the Shell

di M Valdemar
6 stelle

 

locandina

Ghost in the Shell (2017): locandina

 


L'anima – l'originale anime Ghost in the Shell – nel guscio occidentale – la produzione industriale automatizzata hollywoodiana –, questo lo scopo, l'unico possibile.
Che della prima, nel film diretto da Rupert Sanders, vi siano soltanto suggestioni superficiali, derivazioni e repliche inevitabili come mera dichiarazione di appartenenza, è, in fin dei conti, un bene: il capolavoro di Mamoru Oshii – seminale terreno della fantascienza adulta moderna tout court – è un approdo irraggiungibile, un rivoluzionario universo altro di un altroquando che sarebbe da folli (anche solo pensare di) tentare di clonare e/o uguagliare.
Un'intuizione felice, certo; tanto quanto un'ovvia (auto)assoluzione.
Il nucleo centrale è quindi l'adattamento. Non la (banale) rielaborazione da anime a live action, bensì dalla sensibilità/anima orientale e giapponese a quella americana e occidentale.
In luogo del tremendamente affascinante organismo narrativo-teorico dell'opera di Oshii – enigmatico, complesso, torbido, riflessivo, filosofico e cerebrale fino all'incomprensibile –, il pragmatico trattamento di autori e studios alle prese con la realizzazione di un blockbuster macina-soldi in predicato, inoltre, di figliare una saga (queste le ambizioni e le speranze): lo svolgimento genera algoritmi più didascalici, di maggior “facile” lettura (ovvero: sia per i non adepti al culto di Ghost in the Shell, sia al target tipo delle produzioni ad alto budget) e fruizione (è pur sempre un “PG-13” …).
Eliso ogni raffronto – inutile, impossibile, puerile – quale senso acquisisce – e cosa dice – il Ghost in the Shell dell'anno 2017?
Ben lungi dal costituire fondamento e modello per il genere (i generi), del film di Sanders anzitutto si apprezzano l'impianto visivo, la costruzione scenica, il production design (ad esempio, nello sviluppo della megalopoli si rintracciano sì, naturalmente, architettura e immaginario degli originali, ma anche rimandi a graphic novel in stile Enki Bilal, per fare un nome): un'estetica piena e immersiva frutto di un'ottima, per quanto imponente, composizione grafica di animazione ed effetti digitali.

Scarlett Johansson

Ghost in the Shell (2017): Scarlett Johansson

Scarlett Johansson

Ghost in the Shell (2017): Scarlett Johansson


Un involucro cyberpunk idoneo a nascita, evoluzione e affermazione identitaria del “Maggiore”, corpo simbolico, primigenio, e figura complessa sulla quale sono incise – e dalle quale sgorgano come connessioni neuronali – tutte le tematiche e le riflessioni sulla (eterna, da Blade Runner in poi) questione 'natura umana vs. artificiale' (rappresentata sinteticamente ed emblematicamente dalla dualità 'ghost' e 'shell').
I dilemmi esistenziali del Maggiore (le origini avvolte nella nebulosità, le memorie riprogrammate, la solitudine e l'indeterminatezza come sentimenti perpetui avvolgenti, gli eventi che disegnano nuove, inquietanti prospettive), nella esecuzione dello spartito narrativo e dei movimenti action e coreografici (nulla di memorabile magari, ma ben fatto), assurgono così a portato teorico che, quantunque non innovativo né complicato e troppo approfondito, risulta dispositivo funzionale in grado di dare un'anima a un film elevandolo al di sopra degli standard.
Le musiche ipnotiche e pulsanti (quelle originali sono opera di Clint Mansell e Lorne Balfe), il montaggio accurato, la scelta precisa di non aderire ai canoni dello spettacolo fracassone, nei limiti del possibile (Sanders non sarà un genio ma gestisce bene il materiale senza strafare o buttarla in caciara), e il comparto attoriale (su tutti, il grande “Beat” Takeshi Kitano) completano il quadro che vede assoluta, indiscussa protagonista Scarlett Johansson.
Corpo-volto-voce ormai iconici (anche dello sci-fi: dal truzzo The Island, comunque tra le cose meno disprezzabili di Michael Bay, al furbo e felice Lucy fino al magnifico, magnetico Under the Skin, è un'equazione di successo), spazza sin dalla prima inquadratura le ridicole polemiche legate al “whitewashing” (è tra le pochissime attrici – e tra queste nessuna è asiatica –, al momento, a poter garantire una produzione con palesi mire sul mercato globale), attira a sé forza e immaginario (residui) di manga e anime; si fa portatrice, infine, di una “carnalità sintetica” unica e necessaria.







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