Regia di Rupert Sanders vedi scheda film
La trasposizione americana del celebre manga che ha fatto epoca, punta sulle grazie burrose ed ampiamente evidenziate di una Johannson in lattice color pelle.Le vedute della metropoli sfavillante di colori e di cemento che sfida la gravità,non riescono proprio ad emozionare ed il film si riduce ad un corretto e ritmato veicolo da intrattenimento.
Una giovane donna soldato di nome Major, in forza prezzo le forze dell’ordine di una avveniristica metropoli del futuro tutta grattacieli, colori sfavillanti di pubblicità tridimensionali alte come interi edifici, ponti sospesi sopra le abitazioni, si accorge di provare una sensazione quasi di imbarazzo nel vedersi affiorare senza preavviso come dei ricordi annebbiati ed imprecisi di una vita precedente o parallela.
Il suo corpo è stato completamente ricostruito ed è tutto artificiale tranne il cervello, inserito in una struttura potente, quasi invincibile, che tuttavia presenta i tratti di un fisico femminile decisamente attraente.
Impegnata in una missione contro terroristi che riescono ad innestarsi nella mente degli avversari avendone la meglio, la donna incontrerà un altro suo simile che gli rivelerà di come gli esperimenti sugli esser umani resi macchine non fossero frutto di tentativi di salvare vite umane travolte da disgrazie od incidenti, ma veri e propri esperimenti ai danni di ben 98 persone: solo quello della donna, chiamata major, è stato considerato pienamente riuscito.
La dottoressa che ha in cura la donna, e pure elemento principale a cui si deve la riuscita dell’esperimento, ad un certo punto cede alla compassione di rivelare tutta la sporca verità alla ragazza, ma un agente al soldo delle forze governative si oppone con tutte le sue forze, rendendo Major una fuggitiva assieme al suo compagno di sventura, pure lui frutto di un precedente esperimento.
“Io so chi sono.. e perché sono qui”, dichiara Major alla fine della sua fuga travagliata e concitatissima: la conchiglia perfetta che racchiude la sua anima finirà per cessare di essere un fantasma, potendo la donna finalmente essere in condizioni di ritrovare la sua identità, il suo passato, le sue radici.
Per la regia spettacolare e tutta action di Rupert Sanders, noto per la sua rivisitazione gotica della favola ne Biancanese e il cacciatore, Ghost in the Shell punta avveniristiche curve botticelliane di una sexy Scarlett Johansson, molto più in grado di colpirci quelle dei labirintici volteggi attorno ad una città futuristica ben ricostruita, ma tutto fuorché nuova od emozionante, se si pensa che già agli albori della settima arte, quasi un secolo orsono, Metropolis del pur genio difficilmente imitabile Fritz Lang, riusciva a risultare decisamente più emozionante, anche visto con la malizia e l’abitudine che oggi la nostra percezione visiva sconta sull’effetto speciale visivo anche il più pirotecnico ed innovativo concepibile.
Ne esce un film che gioca la carta emozionale grazie alla scelta strategica dei suoi interpreti: e la scelta della coppia sexy Scarlett Johannson in tutina di lattice color carne + Michael Pitt certamente lascia il segno: nelle poche scene in cui i due divi si confrontano, la coppia forma un’alchimia riuscita. Pure Juliette Binoche con una nuova seducente messa in piega, ma a prima vista pertinente come un pesce fuor d’acqua, fa la sua scena nel ruolo della dottoressa tosta, ma con ripensamenti di coscienza, artefice degli azzardati esperimenti.
Beat Takeshi Kitano è pure un’altra scelta strategica per guadagnare appeal: e il celebre autore giapponese, che per tutto il film parla la sua lingua natale tranquillamente mentre tutti gli altri gli rispondono in inglese, sfodera una volta in più tutta la sua immobilità e fissità facciale da stoccafisso scandinavo che presso chiunque altro costituirebbe un limite devastante, ma su di lui acquisisce fascino e charme di pregio.
Comunque il filmetto tutto action, esplosioni e sparatorie, si sviluppa lungo un rutilante corso di eventi che sono già stati visti, sviscerati e rappresentati in mille altre occasioni, rendendo il blockbuster un congegno ad orologeria piuttosto scontato e prevedibile, solo in certe fuggevoli occasioni forte di un suo charme almeno visivo.
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