Regia di Sang-ho Yeon vedi scheda film
Apocalisse, contagio, non morti che seminano distruzione. Un treno come ancora di salvezza o trappola mortale nella quale finire i propri giorni da viventi. Tra horror e disaster-movie, ecco un'ottima produzione coreana, per nulla esente da difetti, ma sorretta da una regia esemplare in grado di esaltare.
FESTIVAL DI CANNES 2016 – FUORI CONCORSO – FILM DI MEZZANOTTE
L’originalità della vicenda posta alla base di un racconto filmato, e la qualità con cui viene condotta la narrazione della storia, appaiono sempre tra gli elementi fondamentali per la riuscita di un film, e affinché si possa uscire dalla sala entusiasti e soddisfatti.
Train to Busan, pellicola formalmente di cassetta, ma da altri fondamentali punti di vista senza dubbio d’autore, smentisce in molte situazioni questo postulato in linea di principio apparentemente incontestabile.
Folle di zombies che minacciano pochi sopravvissuti ne è zeppo il cinema, soprattutto negli ultimi decenni, con casi e filoni esemplari (l’epopea magistrale ed imprescindibile di Romero), blockbuster costosi e dignitosi (un remake romeriano, L’alba dei morti viventi, a cura di Zach Snyder, e quel passabile World War Z con grappoli impressionanti di non morti tutt’altro che lenti e goffi), nonché tutta una serie di sottoprodotti talvolta indipendenti e a basso costo, a volte curiosi, a volte sin divertenti, spesso davvero brutti o banali.
Per non parlare di serialità televisiva, con Walking Dead e qualche suo meno fortunato clone, colpevoli o meritori di aver creato dipendenza a molti spettatori.
Train to Busan frulla situazioni concatenate disparate con coraggio, scaltrezza, e una lungimiranza che inizialmente passa inosservata: minaccia globale apparentemente inaffrontabile, pandemia senza rimedio apparente, ricerca istintiva di sopravvivere con buoni e cattivi mischiati in un microcosmo forzato, impegnati ad affrontare mostri ancora più cattivi e micidiali, che si sintetizzano in situazioni già affrontate, da spettatore, in film notissimi, e spesso di grande effetto scenico, come Cassandra Crossing (gran film per me, ma snobbatissimo dalla critica), Virus Letale, e tutti gli altri titoli citati poco sopra. Oltre che, per ambientazione, mezzo di trasposto, e concitazione, già proposto nel recente e sorprendente Snowpiercer, di padre coreano pure lui (forse il più talentuoso tra i cineasti coreani di oggi, ovvero Bong Joon-hoo).
Nel film dell’ottimo regista Sang-ho Yeon, coreano proveniente dall’animazione, uno scaltro e cinico broker di borsa decide di venir incontro, per una volta dopo il perdurare da parte sua di atteggiamenti distratti e non proprio da padre premuroso, alla richiesta della propria tenera bambina, di accompagnarla a trovare la mamma, da cui l’uomo si è separato.
Durante il viaggio verso Busan, il treno, ma pure tutto il resto di quel macrocosmo metropolitano tutto grattacieli, asfalto e vie ferrate, viene attaccato da un’orda di individui che, contagiati attraverso un morso da propri simili, si muovono rabbiosi e famelici alla ricerca affannosa di nuove forme di vita di cui cibarsi: zombies dunque, non morti, assetati di sangue e affamati di carne, mossi da un irrefrenabile istinto di sopraffazione.
La fuga, concitatissima, coinvolge l’uomo e la figlia assieme ad un altro sparuto gruppo di sopravvissuti, attorno ai quali inizia a delinearsi traccia del rispettivo carattere e delle storie che li coinvolgono ed identificano.
Racchiusi, per circostanze che si chiariranno lungo il percorso, in due vagoni non comunicanti, i due gruppi di sopravvissuti dovranno combattere al di sopra delle rispettive possibilità, aguzzando astuzia ed intuizione per scoprirne i punti deboli, contro l’orda famelica contagiata presente sul treno, ma pure contro i non morti presenti al di fuori, nelle metropoli divenute cattedrali spettrali, e che una regia dirompente e abilissima ci restituisce e rappresenta con spettacolari ed inquietanti riprese aeree volte ad esaltarne la desolazione che le caratterizza dinanzi agli occhi impotenti ed attoniti dei superstiti:
Ma la lotta, non solo fisica ma dai risvolti etici, si consuma anche attraverso il contrasto tra i sopravvissuti: tra chi pensa a salvarsi certo, ma pure a salvaguardare le vite dei propri compagni di viaggio, e chi invece pensa solo per se stesso, dando in pasto ai mostri le vittime sacrificali e spesso ingenue che lo circondano.
Il nostro protagonista appartiene inizialmente a quest’ultima categoria; sua figlia, appena bambina, rappresenta, in modo sin troppo ostentato e retorico, l’innocenza e la buona fede, la purezza santificante di chi non è stato ancora “contagiato” – termine più che mai appropriato qui – dal cinismo prevaricatore che ci rende oggi vincitori letali e carnivori, scalatori degli obiettivi cruciali, quelli che ci rendono capi branco e non sudditi soggiogati.
A dirla tutta, pure molti altri personaggi soffrono della scontatezza e di una tendenziale banalità o piattezza da luogo comune propria di personaggi nel bene e nel male sempre troppo al limite: il cattivissimo e codardo manager anziano, la sposina incinta intraprendente, i due ingenui ragazzi innamorati, un marito un po’ greve, ma fedele e sempre pronto al sacrificio, nonché consorte della moglie incinta di cui sopra.
Personaggi afflitti e resi a volte sin banali dalle situazioni un po’ da cliché in cui vengono coinvolti (le due vecchiette, coppia atipica in odore di omosessualità, tra l’altro interpretate da attrici troppo giovani e goffamente truccate, davvero improbabili ed imbarazzanti) sembra ad un certo punto che riescano a farci perdere l’esaltazione che la vicenda madre già nei primi minuti dall’inizio era riuscita a impadronirsi di noi (la scena del cerbiatto iniziale è notevole).
Ma il film in realtà resta sensazionale, coinvolgente, adrenalinico lungo tutte le sue due ore di durata: non un attimo di tregua, con lo spettatore catapultato egli stesso sul treno (della salvezza o della fine?) a cercare di salvarsi assieme al gruppo di sventurati, quasi tutti ingenui, logorroici, caricaturali, ma appassionanti.
Il merito è tutto del regista: scene di massa apocalittiche forse già viste, ma qui indimenticabili: orde di mostri appesi all’ultimo convoglio ancora in movimento come formiche assassine che istintivamente collaborano tra loro per annientare anche l’ultimo soffio di vita; la metropoli devastata e spettrale, solcata dai binari che tendono verso l’infinito e percorsa da fumi neri; i corpi che precipitano dall’alto, si fratturano, ma continuano innaturalmente a procedere guidati da un istinto assassino che li muove goffamente ma incessantemente anche quando i traumi devastanti ne alterano l’incedere.
Tutto ciò è esaltante, ed in grado di farci dimenticare certe sdolcinatezze altrimenti imperdonabili di cui è intrisa la storia che lega un padre peccatore redento ad una figlia incongruamente in odore di santità; una moglie e presto madre dolce ma dinamica ad un marito grossolano ma in fondo buono e caritatevole; un cattivo caricaturale che è decisamente più letale e micidiale degli istintivi ma solo inconsciamente micidiali non morti.
A Cannes, alla proiezione ufficiale di mezzanotte, e presso quella successiva presso la rassegna Cannes Cinéphiles (io riuscii a perderle entrambe, accidenti!!), il film, attualmente nelle sale francesi, riscosse consensi ed entusiasmi unanimi: anche da parte del pubblico più maturo e generalmente poco avvezzo, se non decisamente avverso, nei confronti dal genere orrorifico-catastrofico entro cui decisamente si incasella questo genere di pellicola.
Altro merito del fantastico cineasta Sang-ho Yeon: aver girato un horror che deborda e deraglia (altro termine pertinente) esplorando frangenti e situazioni sentimentali esasperate, sempre sull’orlo di far precipitare la situazione giù verso il burrone del sentimentalismo spicciolo più scontato e fine a se stesso, ma anche pronto a riportarci saldamente sulla rotta corretta, quella dei binari che ci riportano all’ incubo di base, alla minaccia senza soluzione, riprendendo in mano, con vigore e carattere, le briglie di una narrazione che, al contrario del risvolto sentimental-moralista, incalza ed attanaglia per ritmo e capacità di presa emotiva.
Agli eroi ci si affeziona, ma alcuni in quanto tali devono sacrificarsi: senza voler anticipare troppo, una esemplare uscita di scena a pochi minuti dalla fine, ripresa solo attraverso la soggettiva dell’ombra del personaggio, ci provoca i brividi a pelle…, sensazione piacevole ma pure imbarazzante, che non proviamo esattamente, almeno per quanto mi riguarda, tutti i giorni ed ogni volta che ci troviamo in sala.
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