Regia di Brillante Mendoza vedi scheda film
Ma’Rosa (Jaclin Jose) gestisce insieme al marito Nestor (Julio Diaz) un negozio nel quartiere povero di Manila. Ma arrotondano usando il loro umile negozio come luogo di copertura per la vendita di droga. Un giorno, in seguito ad una azione antidroga della polizia, i due coniugi vengono arrestati e portati al vicino commissariato. Sottoposti ad interrogatorio per sapere a quale clan sono legati, gli agenti di polizia si dimostrano ben presto poco ligi al loro compito di tutori della legge. A loro interessa solo far soldi e gli chiedono un’ingente somma di danaro per evitare il carcere. I loro quattro figli (Jomari Angeles, Felix Roco, Baron Geisler, Mercedes Cabral) si mettono così a girovagare nel ventre di Manila per cercare di racimolare i soldi necessari per la cauzione.
“Ma’Rosa” di Brillante Mendoza è un film che penetra il ventre molle della città di Manila per farcene vedere il lato più brutto e tenebroso, quello più degradato e degradante, di quel degrado che prima è urbano e poi si fa necessariamente umano. L’autore filippino non scosta mai l’obiettivo del centro nevralgico della sua attenzione primaria : come il male si normalizza nelle periferie povere attraverso la continuata impunità dei cattivi. Il film è quasi diviso in due parti ben distinte : ad una prima, tutta svolta in una stazione di polizia, segue quella in cui i figli di Rosa cercano di trovare i soldi per la cauzione. Questo genera un rapporto tra il dentro e il fuori assolutamente speculare. Da un lato, ci sono i tutori della legge, dall’altro quelli che la legge intende perseguire. I primi approfittano della loro posizione di forza per ricavare un vantaggio economico, i secondi si immergono nel cuore maleodorante di Manila per cercare di salvare il salvabile. Ma’Rosa è chiamata così perché tutti la conoscono nel quartiere, tutti sanno cosa fa per vivere e tutti gli portano rispetto. Ma in certi ambienti il tradimento segue l’istintiva legge del chiodo schiaccia chiodo. L’ambizione si mangia quel che resta dello spirito solidale e l’arma del ricatto viene usata per chiedere prestazioni straordinarie.
L’assenza della legge è la regola non scritta che domina le relazioni sociali, e Brillante Mendoza sa rendere percepibile questo dato di fatto non limitandosi a mostrarcela soltanto, ma facendo della stessa regia un incisivo strumento di analisi descrittiva. Il suo modo di muovere la macchina da presa è sempre incline a rendere partecipe chi guarda dell’intero panorama che si sta rappresentando. Si attacca ai personaggi come per far emergere tutti i loro influssi disturbanti. La materia visiva diventa un oggetto contundente che respinge e attrae allo stesso tempo, provoca disturbo per quello che si sta vedendo, ma anche la voglia di scoprire l’effetto che fa. Non c’è compiacimento nella sua tecnica di ripresa, e neanche l’intenzione di speculare sulle corde voyeuristiche presenti in noi tutti, solo l’intenzione di aderire al senso del reale praticando un cinema che usa la macchina da presa come uno scandaglio che pesca nel torbido.
L’intima adesione verso l’oggetto rappresentato serve a Mendoza per accrescere di senso l’effetto normalizzante delle pratiche illegali, il fatto che ci sono zone del mondo dove il tessuto sociale è irrimediabilmente corrotto dal regolare esercizio del malaffare. Rispetto a “Kinatay. Massacro” (l’atro film di Mendoza ambientato nelle zone buie di Manila), dove la crudeltà della violenza è più esibita e dove gli occhi del giovane protagonista fungono da termometro emozionale dell’orrore, “Ma’Rosa” indaga il mondo del crimine metropolitano allargando il campo della prospettiva. Se quello è un resoconto quasi documentaristico di una notte da incubo, questo si fa spaccato emblematico di un sistema di cose molto più ampio. La macchina da presa entra letteralmente nel buco del culo, dove semplicemente non esiste il confine tra il lecito e l’illecito, tra chi delinque per sopravvivere e chi usa la delinquenza come ulteriore strumento di sopraffazione sociale. Rosa e la sua famiglia usano il loro negozio per garantire la vendita di droga al clan di quartiere, ma è difficile definire se hanno mai avuto la possibilità di fare altro o se la mancanza di alternative ha scelto per loro la strada da prendere. Ma a Mendoza questo sembra non preoccupare, lui racchiude sempre la narrazione entro uno spazio temporale ben definito e con situazioni ben delineate nei loro essenziali elementi fenomenologici. A dimostrazione che a lui, più che di fare un’analisi di stampo sociologico attraverso un film, interessa offrire un quadro sociale usando la macchina cinema come potente strumento di rappresentazione visiva.
Il finale tocca le corde della commozione tanto è evidente l’invito a cercare di capire il punto di vista di questi figli del malessere metropolitano. Rosa è in giro per la città, cerca di racimolare i soldi necessari per pagare la cauzione del marito rimasto in carcere. Ha appena comprato uno spiedino di frutta e la folla intorno sembra offenderla nella sua dignità di donna in affari. All’improvviso i suoi occhi si riempiono di lacrime e iniziano a fissare una famiglia che sta chiudendo il suo piccolo chiosco di cibarie. Un campo controcampo passa dalla famiglia, che si compone dei genitori e di due piccoli ragazzi, e gli occhi della donna. Forse un’altra vita è possibile, starà pensando, sempre fatta di stenti ma almeno svincolata dalla paura di dover ricominciare ogni volta daccapo.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta