Regia di Jonathan Dayton, Valerie Faris vedi scheda film
Billie Jean King Vs. Bobby Riggs non fu, in pieni anni '70, un semplice orgoglioso confronto tra la categoria maschile e quella femminile, che, pur limitata al campo un pò elitario del circuito tennistico, finisce in poco tempo ed agevolmente per sorvolare la singola disciplina e divenire simbolo di una lotta di rivendicazione femminile: ma anche una vicenda in grado di inserirsi intimamente nelle sfaccettate e complesse personalità dei due sfidanti.
E se la giovane tennista in ascesa trova il coraggio di dire basta, ribellandosi alla catechizzazione oppressiva a cui venivano sottoposte le donne, sottopagate senza ragione in nome di un maschilismo bieco e ingiustificato, mettendo su, grazie alla piccola rivoluzione civica di cui si rende portabandiera, ella riesce contemporaneamente anche a ragionare e mettere un punto fermo sulla propria controversa o comunque non esattamente definita sessualità.
Rielaborando intimamente e maturando la consapevolezza delle proprie attitudini, nascoste fino a quel momento anche per convenzione e desiderio di non dare scandalo in un'America ancora bigotta e benpensante in cui certi atteggiamenti venivano ancora pesantemente ostracizzati.
Ma la cosa più interessante e sconvolgente è, a mio avviso, considerare ciò che è stata la personalità del controverso ed esuberante ex campione di tennis e suo sfidante, Bobby Riggs.
Un uomo di indubbio talento per quello sport: chi potrebbe mai negarlo; ma soprattutto un uomo che sfrutta la sua dote per soddisfare un interesse che, nel proprio intimo, lo interessa enormemente di più che quello sprt in cui ha la fortuna di eccellere, ma che in fondo lo annoia, o non riesce comunque ad esaltarlo.
Bobby infatti ama molto di più la sfida che conduce alla scommessa, e grazie a ciò si trasforma nell'essere più esuberante e, se serve, più odioso e raccapricciante per indurre l'avversario ad accettare la sua sfida impossibile: quella che per Bobby è la vera vittoria, e non la partita di tennis, che è solo un mezzo pratico per vincere la battaglia finale, quella vera.
Spesso i film hanno la fastidiosa tendenza a farci vedere, nei titoli di cosa, i veri protagonisti, allo scopo di valorizzare la resa attoriale degli interpreti che sono stati scelti per riprodurre le azioni dei reali personaggi.
Ne La battaglia dei sessi, a questo ormai usurato espediente vi si ricorre in modo esplicito e come da copione: al di là dei propri gusti personali, questa ormai abusata e tendenziosa trovata finale, ci serve tuttavia, una volta tanto, per renderci un'idea concreta di come il personaggio da campione di Bobby fosse davvero il folle che Steve Carrell (davvero bravissimo, molto somigliante all'originale, a sua volta un elemento apparentemente ispiratore dell'Austin Power cinematografico) si impegna a ricreare sullo schermo.
Quella dell'attore americano è davvero la nota più positiva di un film medio che la coppia (anche nella vita, ci dicono le cronache rosa) di registi di Little Miss Sunshine (di ben altra portata qualitativa quest'ultimo!), Jonathan Dayton e Valerie Faris, si impegna a portare sullo schermo preoccupata sin troppo di rendere aderenti alla realtà dell'epoca le scenografie, i costumi, le tendenze di un periodo ormai abbondamentemente decorso da risultare storia.
In questo il film, brillante e con una certa verve, rimane tuttavia un pò scontato e prevedibile, perfettino e calligrafico senza fornirci grandi emozioni e sussulti.... eccetto per quel che riguarda, come già detto, la figura inquietante del nostro Bobby.
Emma Stone, fresca di Oscar, si comporta come se volesse dimostrare di esserselo meritato: ed appare brava, ma anche un pò troppo perfettina nel calarsi nel ruolo della tenace ed orgogliosa sfidante, portabandiera della causa delle donne in un mondo maschilista e prevaricatore.
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