Regia di Jonathan Dayton, Valerie Faris vedi scheda film
Più che una battaglia, un'esibizione: uno show circense e addomesticato alla maniera – manierata, standardizzata, piatta e plastificata – dell'inesauribile impero dei biopic (a stelle e strisce).
Ne La Battaglia dei sessi prevale, come copione impone, la materia di cui sono fatte le “storie vere” trasposte sul grane schermo: infornata aneddotico-cronachistica, impalcatura da ricostruzione d'epoca (impeccabile, nemmeno a dirlo), crescendo agonistico, rete sentimentale, ammiccamenti umoristici, iper-didascalismo e manicheismo da fondo campo.
Infine, la componente “seria”, quella che giustifica/nobilita l'operazione (qualsiasi, operazione): le tematiche. Principalmente due: i diritti delle donne di avere pari dignità e rispetto, in contrapposizione ai «porci maschilisti», e la questione LGBT.
Su “confezionatura” (esemplare) da film sportivo. Il riscatto, il ribaltamento, la vittoria "contro" tutto e tutti ecc.: schemi e stereotipi scagliati con la vorace meccanicità di una sparapalle dozzinale.
Ogni cosa è prevedibile, ogni volée una giocata lenta e debole intuibile anzitempo, ogni pallonetto senza cattiveria e reale efficacia, ogni colpo a effetto privo di qualunque effetto che non sia quello prestabilito, impacchettato, stampato; nel pieno rispetto dei canoni e dello spirito dei tempi (il femminismo di oggi, la crescente domanda di figure da ergere a eroine protagoniste di prodotti per l'intrattenimento, la complessa, controversa faccenda della sessualità).
Sotto l'egida, sempre e comunque, del politicamente corretto. Dell'incontinentemente innocuo. Dell'immarcescibilmente “catartico” e risolto.
Non solo non esiste battaglia – ridotta in sostanza a spettacolo grasso grondante cliché e sudori da fatica sistematicamente dopata –, non esistono nemmeno i sessi né, minimamente, il sesso.
Casto, un lesbo-chic (Emma Stone & Andrea Riseborough) tutto bacini e sospiri, sguardi furtivi e occhiate rubate, secondi di simulazione non dissimulata, pettegolezzi, malelingue, segreti e opportunismo, e gli stilisti gay e il disprezzo della rivale sposata con prole (una macchietta): un'idea del sesso e della sessualità ferma a decenni ben prima degli eventi narrati, moscia come un servizio di seconda del giocatore che anche il primo lo fa debole, e irrilevante, stucchevole, per famiglie.
Vale così unicamente il dato storico, divulgativo: ovvero l'importanza del ruolo avuto da Billie Jean King, le sue azioni e la sua influenza all'interno del movimento tennistico femminile e in quello dei diritti delle donne in generale.
Il resto è, appunto, mera esibizione, come quelle – tra il pagliaccesco e il malinconico/patetico – allestiti dal vecchio Bobby Riggs, scommettitore incallito ancor prima che, banalmente, stolto maschilista.
Ecco, l'ingranaggio azionato da ideatori e registi (la coppia Valerie Faris e Jonathan Dayton, già al timone di Little Miss Sunshine e Ruby Sparks, senz'altro più personali) con tale cristallino furore programmatico, finisce con il causare del rigetto, quasi persino per parteggiare per quell'idiota fuori dal tempo.
Forse anche per la prestazione sopra le righe (del campo da tennis della domenica) di Steve Carell, autentico mattatore che si divora in un sol boccone e in un paio di formidabili basette fiammeggianti la perfettina (ma che noia) Emma Stone, “imbruttita” (cioè senza trucco) e di occhialetti munita.
Un'interpretazione, quella dell'attrice di La La Land, adeguata alla convenzionalità e alla progettualità dell'opera: in pratica, la noia del gioco da fondo campo in luogo di quella effervescente e rischiosa sotto rete.
Seconda ora spesa in gran parte per il “match”: una roba – peraltro non girata nemmeno benissimo – vista tipo mille e mille volte.
In mezzo le fatiche, i contrattempi, gli intervalli amorosi, l'ansia da prestazione, l'attesa.
Poi il trionfo, le lacrime, le didascalie.
Fine (di un film “impegnato” che si riterrà “carino”; come tanti, tantissimi altri). Una partita dimenticabile.
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