Espandi menu
cerca
Within Our Gates

Regia di Oscar Micheaux vedi scheda film

Recensioni

L'autore

yume

yume

Iscritto dal 19 settembre 2010 Vai al suo profilo
  • Seguaci 118
  • Post 119
  • Recensioni 624
  • Playlist 47
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi
Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Within Our Gates

di yume
8 stelle

Primo cineasta afroamericano della storia del cinema, girò 44 film tra il 1919 e il 1948, ce ne restano dieci, nessuno ancora restaurato a dovere, ma abbiamo fiducia che prima o poi accada e non sparisca tutto.

locandina

Within Our Gates (1920): locandina

"Oscar Michaux è l’esempio di qualcuno che aveva la filosofia di" niente è impossibile "

Louis Gossett Jr

 Classe 1884, quinto di 11 figli di ex schiavi dell'Illinois meridionale, Oscar  Micheaux si fa strada ben presto nella vita come facchino sui treni poi come agricoltore, dopo aver acquistato un po’ di terra vicino alla riserva indiana Rosebud Sioux nel South Dakota, territorio bianco e rurale.

Tra un raccolto e l’altro scrive romanzi, The Conquest (1913) , The Forged Note (1915) e The Homesteader (1917) , con protagonisti di colore e li vende porta a porta agli agricoltori vicini che gli regalano un modesto successo sufficiente per abbandonare l'agricoltura e scriverne altri sei.

Ma siamo negli anni venti, il cinema è la terra promessa, anche per un afroamericano pieno di grinta che ha tante cose da dire, che ne ha viste e continua a vederne.

Michaux si fa strada anche in quel settore, erano anni buoni, negli Stati del Nord l’apartheid non era esplicito come al Sud, e lui capisce la potenzialità enorme del cinema per far conoscere storie di razzismo, miseria e persecuzione che oggi ben conosciamo ma che allora forse sfuggivano ai più.

Fu il primo cineasta afroamericano della storia del cinema, girò 44 film tra il 1919 e il 1948, ce ne restano dieci, nessuno ancora restaurato a dovere, ma abbiamo fiducia che prima o poi accada e non sparisca tutto.

Certo la violenza descritta nei suoi film scandalizzò non poco i salotti bon ton, ma lui era un pioniere, riserve indiane e nere ne conosceva bene e andò molto controcorrente in tempi in cui i vecchi vizi godevano ancora di protezione e buona stampa e la strada per Atlanta e Minneapolis di un secolo dopo restò ben aperta.

Non pago di dirigere le sue pellicole, volle controllarne anche produzione e distribuzione, fondò la Micheaux Film and Book Company, i migliori attori neri del suo tempo lavorarono per lui e il pubblico nero affollò le sale, letteralmente ingordo dei suoi film.

Esperto o no di cinema, quel pubblico capiva la forza innovativa della sua arte, il modo diverso di riprendere, montare, raccontare sottotrame parallele, flashback, ricordi, visioni sognate e incubi reali.

Quel popolo di ex schiavi vide per la prima volta la propria storia riflessa nel cinema.

Erano gli anni del muto, quando tecnica di ripresa e sceneggiatura, soluzioni di regia e recitazione implicavano problemi molto diversi dal sonoro e dal colore.

C’è una cosa che disse dieci anni dopo, dall’altra parte del pianeta, un cultore del muto come Ozu:

Voglio ritrarre il carattere di un uomo eliminando tutti gli espedienti drammaturgici, voglio far sentire alla gente cos’è la vita senza necessariamente servirmi delle peripezie del dramma” (in Ozu on Ozu: The Talkies, in Cinema, 6, 1971, p. 5).

Quello che appunto faceva Michaux, quel processo di rarefazione che i grandi registi del muto a due tinte, bianco e nero, misero in atto.

Inutile sottolineare la preziosità del risultato, in ogni angolo del pianeta qualcuno c’è stato, conosciuto o meno, che ha guardato l’Universo com’è il mattino all’alba in un giorno d’inverno e ha capito come sarebbero andate le cose durante la giornata.

Per tornare a Mischaux e al suo Within our gates,  il film racconta nella sua prima metà un dramma di amore e gelosia, nella seconda metà, in un lungo flashback, c’è la triste storia della protagonista, Sylvia Landry ((Evelyn Preer), adottata da una famiglia poverissima e cresciuta negli Stati del Sud riuscendo a studiare, raccontata dalla cugina che vive al Nord al dottor Vivian innamorato di lei.

Il film si destreggia fra vari generi, dal gangster-movie  al melodramma romantico, dal documentario attento ai dettagli della vita nera contemporanea alla rassegna antropologicamente corretta di tipi umani eterni.

L’ approccio apparentemente amatoriale alla grammatica del cinema, quel suo modo di realizzare l’editing spesso al di fuori dalle tecniche tradizionali, l’assoluta originalità del racconto non lineare, spesso complesso e difficile da seguire, sono, alla resa dei conti, il suo marchio e il suo genio.

Nel complesso intreccio qualcosa si perde, anche perché le didascalie sono passate per varie lingue e non tutti i fotogrammi sono a posto, ma il miracolo è proprio questo, la forza di attrazione che tiene incollato il pubblico come allora, un secolo fa.

Sono storie di linciaggio, impiccagione, incenerimento, tentativo di stupro da parte di un vecchio maiale notabile del luogo che, guarda caso, si accorge da una cicatrice sul petto della poverina che è la sua figlia bastarda concepita con la serva di colore.

C’è il peggio del peggio in Whithin our gates, dentro le porte accuratamente chiuse dei bianchi, e ci sono anche neri ipocriti che oggi chiameremmo collaborazionisti, il reverendo Ned, il servo Efrem, Michaux non risparmia nessuno e ne fa caricature da teatro espressionista, merito del trucco e di una recitazione volutamente gesticolante ed enfatica.

Ci sono la vedova razzista, il poliziotto nero e il gangster bianco, il proprietario terriero sfruttatore e suo fratello, e c’è soprattutto la maggioranza silenziosa, pronta a imbracciare i forconi e gridare: “Morte al negro parassita”.

Singolare il passaggio, tra prima e seconda parte, dal dramma privato, dalle sfumature romantiche della storia di Sylvia, giovane donna di colore insegnante del Sud venuta a lavorare al Nord, alle vaste dimensioni politiche delle vicende raccontate nella seconda parte. Un crescendo di tensione sotterranea si accumula fino ad esplodere, lo stile è tagliente, privo di retorica, brevissimi flash sull’azione, pochi primi piani, il vortice diventa allucinatorio. Infine si placa, e se non trionfa la giustizia almeno trionfa l’amore, e noi proviamo ad immaginare cosa volesse dire mostrare film così un secolo fa.

Quando il film fu realizzato si erano spenti da poco i fuochi dell' “estate rossa” del 1919, quando Chicago bruciò e la nazione fu svegliata dal suo sonno. 38 morti e circa 1.000 famiglie nere sfollate da incendi accesero la rivolta in città e in molte altre zone della nazione,  l'oppressione razziale istituzionalizzata cominciava ad avere i giorni contati.

Girato a Chicago e dintorni, l'unica stampa del film prodotto localmente è anche la prima stampa superstite di un film diretto da un afroamericano.

Scoperto in Spagna negli anni '70 e restaurato dalla Library of Congress nel 1993 meriterebbe un restauro migliore con i mezzi all’avanguardia di oggi.

Morto nel ’51, Michaux ha collezionato più premi da morto che da vivo: nel 1987 è stato ricordato come "Star" da Hollywood Star of Fame Due anni dopo, gli furono conferiti premi postumi dalla Black Filmmakers Hall of Fame (1989) e dal Director's Guild of America (1989). Ogni anno Gregory, nel South Dakota, città natale adottata da Micheaux, organizza l'Oscar Micheaux Film Festival.

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati