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Barriera di carne (o La porta del corpo)

Regia di Seijun Suzuki vedi scheda film

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La recensione su Barriera di carne (o La porta del corpo)

di Stefano L
8 stelle

Gate of Flesh (1964) - Posters — The Movie Database (TMDB)

 

Tragedia struggente, ove Suzuki attinge a piene mani dal neorealismo europeo, “Nikutai no mon” è un altro angoscioso, adamantino affresco del dopoguerra giapponese vissuto da un gruppo di smaccate prostitute della periferia di Tokyo. Uno spaccato erosivo, di una megalopoli devastata, irto di un mordace pessimismo nei confronti della natura umana e raffigurato dalla cosmesi splendida della policroma, sfiziosamente appariscente rappresentazione di uno strepitoso background (complimenti al designer Takeo Kimura per l'estro artistico con cui ha realizzato in tempi brevi la confezione), ambientato prevalentemente nella costruzione smantellata in cui le suddette, vendicative lucciole sono riuscite a sopravvivere in quel microcosmo colmo di turpi nefandezze grazie ad un business indipendente che le permetterà di tirare avanti, sdoganando le sordide attività della yakuza e l’invadente presenza dei militari statunitensi. La nuova arrivata, Maya (la piccante Yumiko Nogawa), non avrà molti impedimenti ad integrarsi agevolmente nel turbolento ammasso di giovinastre, a patto di seguire l’unica, tassativa regola del loro legame: non concedersi gratuitamente a nessuno, pena la dolorosa ed inevitabile tortura. Nelle fasi iniziali del suo inserimento Maya rispetterà zelantemente questo indilazionabile precetto, finché la comparsa improvvisa di Shintaro (il ruvido Joe Shishido), ex soldato ricercato per omicidio, comincerà a dar luogo a un vortice di tensioni sempre più perniciose ed accese, le quali, purtroppo, degenereranno nell’ostilità collettiva ai danni della povera Maya. Un quadro emotivamente affliggente, pervaso da un’aura tribolata dalle tonitruanti, oscene, provocanti stoccate della squallida realtà suburbana. Il “Nikutai” (retoricamente, il "corpo", "l'insieme compatto degli individui autoctoni") collocato nel titolo dell’opera (nobile adattamento filmico del libro omonimo di Taijiro Tamura) non è altro che la scaltra, stuzzicante allegoria della nudità/estraneità/quarantena di una società acciaccata da un conflitto assurdo, il quale ne ha destrutturato l'animo espansionista per via del disastroso depauperamento post-bellico. Quelle tempere pastellose, elettrizzanti degli abiti indossati dalle meretrici che flagellano a turno le mendaci “colleghe”, sembrano suggerire l'eterogeneità sferzante delle letali ripicche esercite dalle nazioni prima alleate, poi ingannatrici, di un paese soggiogato dalle imprevedibili dinamiche di una battaglia deleteria ed avvilente. Altri saltuari dettagli, come il vistoso marchio sul braccio di Satoko Kasai, e la sprezzante ironia di refrattaria attitudine mostrata verso quella vile immagine affibbiata allo straniero, rammentano, subliminalmente, l’attaccamento, ancora narcisistico, al radioso passato “pre-apocalittico” di progressista memoria; “Barriera di carne” non risparmia iperboli disturbanti e una dilagante trivialità del contenuto, sebbene pervenga a congiungere encomiabilmente lo strumento cinematografico con l'oggetto testuale focalizzato sulla lacerazione determinata dall’affranto, sfrenato trascorso.

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