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Tommaso

Regia di Kim Rossi Stuart vedi scheda film

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La recensione su Tommaso

di MarioC
6 stelle

Tommaso e le donne, Tommaso ed i traumi dell’infanzia, Tommaso e il se stesso che si smarrisce dentro l’inconscio. Kim Rossi Stuart tira le fila dei primi 40 anni del maschio moderno, li affronta e li sviscera con encomiabile partecipazione, un filo di narcisistico specchiamento, una leggera confusione onirica che nel finale pare dipanarsi (un po’ semplicisticamente) in una soluzione ariosa, ed acquatica, che è la conquista della ritrovata conoscenza dell’origine dei propri mali. Quanto è credibile l’attore/regista in questa sua seconda prova (dopo il davvero soddisfacente Anche libero va bene)? Davvero si può dar credito alla confessione autobiografica, in un soggetto che ha fatto, anche al di là delle proprie intenzioni, della bellezza nervosa e del fascino maledetto il suo riconoscibile atout? Non è questo il punto. Il reale nodo è la presa d’atto della evidente sincerità di fondo (Kim/Tommaso è un po’ tutti noi in questi anni di liquidità sessuale e difficile peregrinazione sentimentale ed esistenziale) ma anche la constatazione di una certa difficoltà e farraginosità nel volgere tale esigenza di vuotare il sacco e mettersi a nudo in una composta messa in scena, che eluda definitivamente il rischio macchietta e crei empatia e compartecipazione reali.

 

 

Rossi Stuart non è Nanni Moretti. Benché sia facile cogliere in Tommaso i tratti esagitati, di folle timidezza e spaurita aggressività che furono del prototipo, un tal Michele Apicella, va riconosciuto che di acqua sotto i ponti ne è passata. Laddove Moretti lasciava in controluce i difficili rapporti con l’altro sesso (ovvero li trascolorava in scene dall’impatto fortemente saturo e caricaturale – pensiamo alla proverbiale scorpacciata di Nutella o alla celeberrima telefonata sulla festa danzante-), KRS ne fa centro vorace della propria poetica, pone quale nucleo della sua narrazione il sesso (come genere ed atto, molto spesso mancato) e la sua devastante portata in tema di riconoscibilità di se stesso, del se stesso più sociale. Anche in Tommaso, come in Michele, c’è frequente rinuncia, tuttavia temperata dalla dimensione del sogno che trasforma un handicap psichico in vagheggiato superomismo (le donne nude del tram, i brevi intermezzi di accoppiamenti furiosi con una donna, la qualunque). La ricerca della perfezione nell’altra e la continua ossessiva annotazione di un difetto fisico che riporti le cose al loro posto, nella caverna di solitudine (come dice il personaggio interpretato da Cristiana Capotondi) sono allora altrettanti espedienti che ricompongono il puzzle delle paturnie, un po’ ricercate un po’ incistate in radici profonde ed inconoscibili. Tommaso ne soffre, chiede aiuto a medici generici che si inventano psichiatri; Michele Apicella aveva, nei confronti di quelle medesime difficoltà, un generico senso di superiorità e menefreghismo, una degnazione molto anni ’70, quando la rivoluzione sembrava ancora possibile, una rivoluzione che, invece, non si è compiuta ed ha semmai lasciato, nel maschio del nuovo millennio, polvere e detriti di crisi identitaria.

Ogni donna che Tommaso incontra si fa vestale di una caratteristica fisico-psichica destinata a coinvolgere il maschio titubante ed a riportarlo, invariabilmente, al punto di partenza. Non c’è totalità possibile: amare una donna che contenga il tutto e l’assoluto è impossibile, la parzialità è morte o un nido di vermi che ritorna ossessivamente a turbare sonni e realtà. La ragazza storica è la noia, sono quei denti storti che un tempo si sono amati e che poi diventano routine insostenibile. La ragazza bella ed ordinata, di quella bellezza pura che rimanda alla adolescenza, è la possibilità di adagiarsi sul quotidiano. Difficile, se nel quotidiano si annidano echi e ricordi di un passato che si sta tentando con fatica di decrittare. La cameriera burina è la femmina: angelo e demonio, cosciente di sé e del proprio fascino animale, in grado di concedersi secondo le contingenze del momento e dell’estro e di ritrarsi con la medesima nonchalance. Uno jo-jo impazzito, e che fa impazzire. Di fronte a loro c’è il delirio masochistico e narcisistico di un uomo che sa quel che sogna e non sa quel che vuole. Tommaso che fa l’attore e che, nella vita, non recita altri che se stesso.

 

 

Temi indubbiamente interessanti, approcciati con spirito ed esigenza di verità. Svolgimento non sempre coerente: il gioco mostra spesso la corda, si perde, senza ritrovarsi, in inserti comici e deliri onirici che appesantiscono il discorso, la mimica di Rossi Stuart si paralizza in espressioni perennemente survoltate, espressionistiche, a tratti davvero troppo marcate. A risentirne è proprio il transfert tra personaggio e spettatore: tutti, lo si diceva, siamo un po’ Tommaso, nessuno di noi è in grado di riconoscere in se stesso quel grado di ferino disturbo psichico che il regista attribuisce al suo (anti)eroe. Due cose che rendono l’opera molto interessante: la prova maiuscola e sorprendente di Camilla Diana, che si accolla il compito di sostenere da sola il lato comico e surreale del film e ci riesce in pieno, con (azzardiamo) naturalezza da grande attrice in fieri. E poi la apparizione di Dagmar Lassander (la madre di Tommaso) con la quale, in un gioco sottilmente metacinematografico, il cerchio si chiude. La attrice ungherese, già icona erotica del cinema dei ’70 (chioma fulva, sguardo assassino) come femmina/prototipo, summa di ogni possibile deviazione del sereno percorso di accettazione e conquista sessuale del debole maschietto.

 

 

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