Regia di Kim Rossi Stuart vedi scheda film
Annunciato da uno dei manifesti più belli degli ultimi anni, fieramente dominato da un’idea di comunicazione che rinuncia alla pigra dittatura iconografica della foto di scena, Tommaso è il secondo tassello del percorso autoriale di Kim Rossi Stuart, il più talentuoso (e parco: sette film negli ultimi dieci anni) attore della sua generazione. Dopo Anche libero va bene, che raccontava il passaggio dall’infanzia all’adolescenza del piccolo Tommaso, eccoci, con un salto temporale di almeno trent’anni, ad osservare i problemi dell’attore Tommaso (ricorrenza non casuale) con le donne della sua vita. È, a suo modo, un itinerario che bagna il naso a Truffaut, una sorta di ipotesi di Antoine Doinel senza il determinante coinvolgimento di Jean-Pierre Leaud né i parallelismi personali con l’autore: Non drammatizziamo… è solo questione di corna ma soprattutto L’uomo che amava le donne, che, certo, non è un Doinel pur essendo un Truffaut e quindi, a suo modo, sempre un Doinel.
Benché i presupposti tendano a farlo credere, non è un lavoro schiettamente autobiografico: Rossi Stuart è troppo abile per non capire le difficoltà che implica una scelta in questo verso, dagli impegnativi riferimenti al cinema di Nanni Moretti (che resta il più influente autore degli ultimi quarant’anni, l’unico in grado di ispirare allievi ed emuli, amatori e imitatori) ai sommessi menefreghismi di un pubblico non più così disposto ad accettare autoanalisi in piazza dei divi nostrani. Dico non a caso “divo”, perché, se c’è un’allusione all’autore, non sta tanto nella professione in sé quanto nel suo status divistico: Tommaso Benetti non è un divo, è un attore probabilmente molto impegnato di cinema d’autore, ma non fa parte di uno star system tale che non ti fa girare per strada.
È una componente molto interessante per cominciare a districarsi nelle problematiche di un quarantenne manco tanto rampante che lavora in un mondo che, tutto sommato, pare lasciarlo indifferente. Quando Tommaso accetta di partecipare ad una tipica commedia italiana pur di poter realizzare il suo primo film da regista, una confusa opera onirica, Rossi Stuart mette in scena il narcisismo di chi ha un mondo destro e non sa come esprimerlo, la presunzione di ritenere che le proprie nevrosi siano, come pure è vero, quelle di tutti. Nel momento in cui il regista della commedia decide di inserire un finale pseudo onirico in cui un bambino si perde e non viene più trovato, Tommaso esplode: non è forse lui quel bambino, come gli ripete in continuazione il paterno psicologo Renato Scarpa?
E sì, forse lo psicologo è una trovato semplicistica, ma almeno non è uno psicanalista, che Moretti e Verdone hanno già contribuito a mitizzare. Ma è un personaggio-chiave per destreggiarsi nell’universo infantile di Tommaso, ossessionato dalle donne (le vede nude per strada e, simbolicamente, ne succhia i seni prosperosi) e incapace di mantenere relazioni stabili. Se Jasmine Trinca e Cristiana Capotondi vengono lasciate per immaturità e inadeguatezza, Camilla Diana è l’oggetto inafferrabile che denuda le nevrosi (nonché la giovinezza che sfiorisce: e significativamente lui si taglia la barba e sembra più giovane). Tommaso è, in qualche modo, una delle più compiute rappresentazioni del maschio italiano contemporaneo, più un prodotto del suo tempo che della sua generazione, ipersensibile ed instabile, emotivo e codardo, caldo ed egoista. E naturalmente con un rapporto assurdo col materno (un’inquietante Dagmar Lassander in grande rentrée; ma pure l’agente Serra Ylmaz è un surrogato materno).
Il merito di questa accuratezza nella scrittura del personaggio maschile è da accreditare soprattutto alla bella e misurata penna di Federico Starnone, sceneggiatore che fa dell’occasione la propria virtù. A mancare, probabilmente, è un controllo registico in grado di gestire le citazioni, i rimandi, le suggestioni che Tommaso non lesina. Se è impossibile non pensare all’ascendente felliniano tanto nelle sospensioni spazio-temporali di 8 e ½ (se si vuole affrontare un tema del genere, il caposaldo felliniano è un passaggio obbligato) quanto nei momenti agresti di Giulietta degli spiriti (l’albero e la bellissima immagine di Dagmar in fuga), si ravvedono, d’altro canto, richiami, perfino graffianti, alle commedie contemporanee (quelle urlate di Muccini, quelle minimaliste di una Comencini, quelle della chiacchiera di Genovese). La schizofrenia del personaggio si riflette, d’altronde, anche nel tono, tra l’onirico e l’erotico, il romantico e il romano, il sogno e la carne.
Ed è, infatti, il film italiano più erotico possibile nell’epoca dell’erotismo ovunque: è la sintesi romanocentrica del merlo maschio e l’homo eroticus di Buzzanca e Festa Campanile con le turbe egocentriche del Moretti d’antan oppure un Giannini nato negli anni settanta con alla regia un Baumbach o un qualunque indie americano. Alla fine, Tommaso è, come si dice ad un certo punto, un sintomo delle cose perdute e delle cose mancate di un cinema che si sprovincializza usando gli strumenti con cui si è reso provinciale, un ritratto spudorato di un personaggio complicato. Al netto dei difetti, degli scompensi, dei problemi è un ambizioso e vitale esempio di un cinema che sa di poter gettare la ragione oltre l’ostacolo del cuore. Ma un finale scopertamente autobiografico forse troppo prevedibile.
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