Regia di Fien Troch vedi scheda film
È successo. Una volta come tante altre. Nessuno se ne sorprenderà. E tutto (o quasi) tornerà come prima. Forse meglio di prima.
Il rifugio dell’anima. No, anzi, il rifugio dei segreti. La casa talvolta è il luogo in cui è pericoloso tornare. Il posto che, per definizione, deve restare chiuso, lontano dagli occhi indiscreti. Una prigione da cui bisogna scappare furtivi, trovando una scusa, nascondendosi dietro una menzogna. La stessa che ci si porta dietro non appena si esce, perché certe verità non sopportano la luce, e colorano di nero chi ne è portatore. I fatti narrati sono realmente accaduti. Hanno covato nell’ombra con la stessa lentezza mista alla noia, nella melmosa sensazione che i giorni si trascinino tranquillamente, perché questo, senza clamori né sfarzo, è forse il migliore dei modi possibili. La roccaforte della media borghesia, benché aggredita dalla malefica pianta della violenza giovanile, non è stanca del proprio essere. Si accetta, riservata e un po’ rigida, per quello che è: una classe di lavoratori agiati, che vivono di comodità e certezze, riuscendo a trovare un riparo ovattato anche alla vergogna. Ha finalmente amalgamato la lezione del mondo, quella che insegna che ogni cosa è possibile, che tutto succede anche nelle migliori famiglie, e che la tolleranza è la figlia matura del sano realismo, del progresso culturale, del superamento di tutte le ideologie e di ogni falsa morale. In questi decenni il cinema belga ci ha scosso con i suoi eccessi fino al midollo, fino ad esaurirne l’effetto, fino al punto di assuefarsi esso stesso alle sue provocazioni sempre più spinte, trovando la pace dentro un sospiro di consapevole rassegnazione. Le generazioni hanno smesso di lottare fra loro, per condividere lo stesso salottiero disincanto, immerso nel silenzio domestico dei tempi morti, tra le partite a carte sul tavolo di cucina e le chiacchierate sul divano. Il problema non è fuori da quella mura. Non è più il disagio dei soliti sbandati, della mancanza di riferimenti, dei ragazzi vagabondi che hanno perso radici e identità. Adesso sono tutti lì, con mamma, papà, zii e cugini, nell’azienda che porta il loro cognome, a salvarsi dai colpi della vita, a garantirsi un futuro, a guarire da ogni male in un nido imbottito d’affetto. I genitori parlano con i professori dei figli, li accompagnano ai colloqui per la scelta del corso di studio. Li accolgono quando escono di prigione, li assumono come apprendisti, li capiscono e li consolano con un abbraccio. A volte tutto questo è troppo. È un muro eccessivamente soffice e spesso, che impedisce il contatto diretto, che assorbe i rumori e le asperità. Fino a chiudere lo spazio vitale in un recinto in cui si convive da estranei, nel rispetto reciproco, senza invadere gli spazi dell’altro, senza intromettersi nei suoi affari. Questa separazione è la possibile premessa di una deriva, in cui i bisogni individuali, quelli veri e più profondi, finiscono per non farcela più a restare ignorati, taciuti, repressi per non dare fastidio a nessuno. È allora che tutto può accadere, senza preavviso, senza possibilità di controllo. La dinamica è semplice, sarà per questo che il suo racconto non ci appassiona. Inizia in una normalità opaca, ma priva di tensione, e lì dentro finisce la corsa, in un colpo di scena arrivato nella totale assenza di emozioni. Ma così vuole il caso. Così vuole anche l’esigenza della vita, che chiude l’episodio e decide di andare avanti. Con la consueta saggia prudenza degli adulti, e con le solite sciocchezze che, sbagliando e crescendo, fanno tra di loro gli adolescenti.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta