Regia di Theodore Melfi vedi scheda film
Razzistello, segregazionello. Palliducci contro negretti. Buffetti e facciotte. Discriminarello.
Insieme a Moonlight e Barriere era l’altro film inserito nel novero dei migliori film premiabili con l’Oscar alla recente cerimonia dell’Academy Award. Il terzo film a tematica afroamericana che doveva soddisfare, a pensare male, le quote nere che l’Academy ha dovuto inserire tra i migliori film per far sbollire la rabbia dell’Oscarsowhite dello scoro anno.
A pensare male si fa peccato, soprattutto quando si tocca un tema sensibile come quello razziale ma molto spesso si ha ragione, soprattutto dopo aver visto il film. Tratto da una storia vera, Il diritto di contare (gioco di parole italiano visto che si parla di donne contabili-programmatrici) narra la storia di Katherine Johnson, Dorothy Vaughn e Mary Jackson, tre scienziate di colore che devono sfidare i pregiudizi razziali ed affermarsi nella NASA alla vigilia della conquista dello spazio prima che i russi si impossessino del futuro.
Ecco quindi che il micromondo della segregazione razziale, in un contesto di altissimo profilo tecnico e culturale come quello dell’agenzia aerospaziale americana, diventa soggetto universale per parlare del problema razziale in generale. Molto bello, il tema. Vero, soprattutto, visto che le tre donne cambiarono realmente le cose operando una rivoluzione pacifica dall’interno dell’ottuso pensiero segregazionista.
Talmente vero che una di esse, sopravvissuta, è stata portata sul palco dell’Academy durante la consegna degli Oscar.
Peccato che il film sia di una banalità sconcertante. E’ il classico film americano sui neri fatto dai bianchi, usato per un propagandistico auto-risciacquo delle coscienze e ricollocamento autoassolvente nell’immaginario collettivo di un problema gravissimo come quello del razzismo.
Simpatichello e giocondo, talmente meccanico nella sua drammaturgia da instillare in chi guarda un fastidioso senso di déjà-vu, leggero di tocco e piatto di regia, Il diritto di contare scivola sul problema della segregazione razziale con la leggiadria di un surfista che accarezza le onde e fugge prima di esserne inghiottito. Il regista Theodore Melfi lancia il sasso e tira indietro la mano alternando i problemucci di queste tre donne pesantemente offese nei loro diritti a momenti di commedia, risoluzioni facili senza asprezze e con il cattivo di turno (Kevin Kostner) che si redime in un impianto narrativo che sembra uscito da una fair tale moderna. Senza dolore.
Il trucco (che Hollywood conosce a menadito) è quello di parlare di un tema scomodo in una forma gradevole, liscia di montaggio, monocorde di direzione, accattivante di fotografia. In questo modo il tema viene edulcorato, inghiottito e digerito. Assimilato senza effetti collaterali.
Questo film è falso come vedere gli Avengers che combattono contro gli alieni ma molto meno divertente. La rimozione del dolore accomuna i due generi, dove non si vede sangue, le lacrime sono posticce e tutto è bene quello che finisce bene. Si esce rassicurati da questo filmetto di razzismo da operetta, e l’intento era proprio quello: rassicurare i neri che grazie a loro i bianchi sono andati sulla luna e rassicurare i bianchi che si, sono stati un po’ stronzetti, però suvvia, alla fine tutti vissero felici e contenti.
Si, come no.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta