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Il diritto di contare

Regia di Theodore Melfi vedi scheda film

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La recensione su Il diritto di contare

di SredniVashtar
5 stelle

Uno, anzi due, temi seri trattati col buonismo che deriva dai sensi di colpa postumi.

Il diritto di contare – titolo italiano basato su un doppio senso, come del resto l’originale Hidden Figures – da un lato è interessante, da un altro pieno di imprecisioni tecniche, da un terzo mieloso come un disney d’annata.

 

La parte interessante consiste nell’insight (benché impreciso) di uno dei massimi problemi tecnici dei voli spaziali pre-computer: il calcolo delle traiettorie di volo e delle orbite. Personalmente avrei sviluppato molto di più questo aspetto, benché mi renda conto che le technicalities non sono la passione della maggioranza degli spettatori. La mancanza di accuratezza nella ricostruzione scientifica è palese per ogni studente di Fisica o Ingegneria: una delle protagoniste traccia banali formuline da liceo sulla lavagnona, e tutti lì a guardarla come se avesse scoperto il Graal. Il paradosso finale è lei che controlla in dieci minuti le difformità di previsione del computer IBM che fornisce i parametri di rientro della capsula di Glenn: sì certo, come no.

 

Anche prendendo per buone queste fesserie, è l’intera atmosfera del film a essere viziata da una tesi preconcetta, dimostrare quanto erano gagliarde alcune computer-umane. Sì, erano gagliarde davvero (e qui mi ricorda un altro film, non so bene se quello su Turing o un altro ancora), ma in un modo completamente diverso da come descritto. Si lavorava in team, non ognuno alla propria scrivania, dividendo il problemone in tanti passaggi algoritmici e ciascuno degli operatori si occupava di una parte del calcolo: nessuna Pico della Mirandola a calcolare tutta l’orbita, seduta nel cesso di un altro dipartimento. In questo, la pellicola è eccessivamente didascalica.

 

Ma la sensazione più spiazzante del film è l’evidenza che negli USA il problema del razzismo, e più in generale dei comportamenti “conservatori” (eufemismo) di alcuni stati (qui, la West Virginia) rispetto ai dettami federali, è stato un tale coacervo di ipocrisia, ambiguità e lacerante contraddizione che la cinematografia continua a cercare di esorcizzarlo, un po’ come l’analoga epopea dei film sul Vietnam. In tal senso, non è un film “sui negri”, ma sulla cattiva coscienza odierna sull’America anni ’60. Come il bambino che ha rotto il vaso e da quel momento diventa iper-obbediente, così Hollywood si trova costretta a un manicheismo di maniera, dove il bovero negro si riscatta (filmicamente) contro l’imperante oppressione bianca. È un’iperbole continua, che affida a Kevin Kostner la sintesi della presa di coscienza, con i contraltari Kirsten Dunst (antipatica di suo, quindi a proprio agio) e Jim “Big Bang Theory” Parsons a fare gli irriducibili e prevenuti razzisti di fatto. Non falso, ma finto fin nei minimi dettagli.

 

Ne consegue un’opera di buoni sentimenti, disneyana all’eccesso, in cui tutti i buoni stanno da una parte e i fessi, cattivi e anaffettivi dall’altra. Paradossale ed esemplificativa la scena in cui la negra calpesta e derisa, dando una fugace occhiata al moloch IBM, sentenzia che “quel cavetto non deve stare lì”, lo sposta e tutto inizia a funzionare. Sì, come no (2).

In questa pletora di irrealistici luoghi comuni a uso della political correctness a posteriori, Il diritto di contare perde – come dicevo all’inizio – l’occasione di essere un serio documentario, magari ricostruito e reinterpretato, sull’enorme e misconosciuto sforzo di tanti tecnici che hanno permesso i primi lanci nello spazio, usando carta e penna e calcolatrici da tavolo (che le matrici inverse comunque non le calcolano).

E perde anche l’occasione di interrogarsi sul serio circa la Grande Domanda che aleggia per tutto il film: perché i russi sono arrivati prima? Semplice, ma doloroso da ammettere: progettisti migliori, budget illimitato e sì – infine – matematici più capaci.

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