Regia di Pietro Germi vedi scheda film
Un film strepitoso sulla mafia, per verosimiglianza e serietà, nonostante un finale purtroppo sognante. Ma con questa pecca, pur non da poco, il film merita comunque il massimo dei voti: è perfetto nel mostrare il fenomeno della criminalità organizzata in Italia, uno dei pochissimi movimenti capaci di essere davvero classe dirigente nel belpaese, purtroppo.
Lodevolissima è la chiarificazione della causa della mafia: l’aristocrazia. Il nobile fa la figura che deve fare: a raffinatezze che sono tanto intelligenti quanto solo apparenza, e studiato e competente inganno, fanno da contraltare due cose. La prima è la corruzione che il nobile cerca di fare al prefetto; la seconda è il suo essere assassino, mandante di omicidi. Questo è un ritratto perfetto della storia della nobiltà, al netto della puerile e interessata lode che ne è stata fatta nei secoli, da persone colte sotto certi aspetti, ma servi meschini e soprattutto ignorantissimi, riguardo alle cose che davvero contano.
Il film è molto siciliano e lo è poco. Lo è poco per l’assenza del dialetto e di volti davvero siculi. Lo è molto per l’affresco realistico e puntuale della società siciliana. Lo è per la tendenza all’omertà. Lo è nella scena, e nei pochissimi cenni con la bocca, della cupola che decreta la condanna a morte del prefetto.
Uno dei tratti salienti è il rapporto fra Sicilia e Italia. Si tratta ovviamente di un rapporto fra stranieri che non potranno mai assimilarsi, in cui gli italiani sono fastidiosi impiccioni che devono essere neutralizzati presto, come già la classe dirigente siciliana è sempre riuscita a fare verso qualunque potere centrale “straniero” (proveniente da Napoli, Torino, Roma…) che abbia cercato di imporre le sue leggi sulla Sicilia che aveva conquistato. Nel film i rappresentanti dello stato sono degli isolati, impotenti a compiere seriamente il loro dovere. Se vogliono fare il loro dovere, sanno che ad attenderli c’è la morte, dopo l’isolamento e le minacce.
Ma nel film i motivi di speranza sono tanti, anche se purtroppo risultano ancora smentiti, a quasi 70 anni di distanza. La maggioranza degli sfruttati sta dalla parte del prefetto, eroe di giustizia. La storia sentimentale, intessuta nel silenzio degli sguardi, è di grande lirismo e credibilità. Il finale poi è eccessivamente ottimistico, come si diceva: la mafia consegna dei criminali per collaborare con lo stato. Assurdo, solo pochi l’hanno fatto, ma hanno pagato con la vita, e certo l’organizzazione criminale non poteva tollerarli. Eppure al regista Germi va dato atto di questo: tratteggia un finale di speranza, in cui lo stato riesce ad addomesticare e neutralizzare le mafie proprio perché “fa lo stato”, cioè permette le condizioni di una giustizia uguale per tutti e di una sempre maggiore prosperità. Ebbene in Italia questo non è mai accaduto, anzi è accaduto il contrario, cioè che i ricchi privilegiati prosperassero sempre di più a discapito di chi sceglie di non essere disonesto. E allora perché dico che bisogna dargli atto di questo messaggio? Per il fatto che il film mostra in precedenza la realistica consapevolezza di quella che è la verità al riguardo: che in Sicilia (il che vale ovviamente anche per tutto l’ex regno delle due sicilie) le cose sono sempre state sistemate non secondo la legge (la tanto odiata, dai mafiosi e dai nobili, legge scritta), ma secondo le consuetudini: quelle barbariche e primitive insomma, che permettevano il diritto del più violento e la negazione dei diritti umani (questa è in sintesi la storia universale, e tutto il succo della storia sicuramente fino all’800). Il pregio, cui facevamo riferimento, è questo: la speranza appunto che lo stato faccia lo stato, e si faccia rispettare anche dai più recalcitranti, perché propone il meglio per tutti, anziché l’ingiustizia a vantaggio di pochissimi ricchissimi.
Dal punto di vista tecnico, questo è un favoloso film degli anni ’40. Con tutti i difetti della sua vetustà. La recitazione sarà troppo teatrale, ma è comunque perfetta. La sceneggiatura non ha sbavature, e va dritto al sodo, perfetta. La fotografia è splendida, così come la colonna sonora.
Nonostante il difetto prima registrato, il film merita il massimo anche per la caratterizzazione del protagonista: caldo con i popolani che gli vogliono bene e di cui si può fidare, freddo con i popolani e i notabili che lo vogliono ingannare, nonostante la falsa e apparente socievolezza. Questo prefetto è quello che nel finale promette di rimanere nel paese, nonostante tutte le minacce: sa che la sua vita finirà, e pure a breve, crivellato da una lupara. Eppure è quello che lo stato dovrebbe sempre e solo essere: ciò che fa rispettare la legge senza privilegi.
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