Regia di Pietro Germi vedi scheda film
Al di là del suo indiscusso valore intrinseco, questo film è da tanti ricordato come il "primo western italiano"... Ancor più importante: è IL PRIMO FILM ITALIANO CHE PARLA DI MAFIA. Ma che cos'era la mafia nel 1948, o almeno com'era percepita? E quanto aveva in comune con quella che conosciamo, o crediamo di conoscere, noi oggi?
IN NOME DELLA LEGGE (1948)
Al di là del suo indiscusso valore intrinseco, questo film è da tanti ricordato come il "primo western italiano": ne tratta approfonditamente un articolo risalente all'uscita del film che Vi propongo integralmente perchè mi sembra una "chicca", anche in quanto scritto, probabilmente, da un "non professionista" della critica cinematografica. (1)
Da parte mia, mi limito ad osservare che Pietro Germi intenzionalmente realizza il suo film "come se fosse" un western; però ci sono due differenze assai significative:
- come già con "Gioventù perduta", vuole trattare problemi del suo tempo (e non di un secolo prima);
- e poi, ovviamente, nel "Far West" americano al più ci sono gli indiani; qui c'è la mafia, siamo nel "Profondo Sud" italiano, per essere precisi siciliano: ed è tutt'altra cosa. (2)
Ancor più importante, almeno per i non "addetti ai lavori", è infatti l'altra primogenitura per cui IN NOME DELLA LEGGE sarà sempre ricordato: è il "primo film italiano che parla di mafia".
LA MAFIA:
Ma che cos'era la mafia nel 1948, o almeno com'era percepita? Era quella del film? E quanto aveva in comune con quella che conosciamo, o crediamo di conoscere, noi oggi? Credo ben poco.
Pare che il vocabolo "mafioso" avesse originariamente un significato positivo: una ragazza che si distingueva fra le altre per particolare bellezza ed eleganza era "mafiusa".
Il fenomeno dei gruppi locali di "mafiosi", ciascuno con un loro capo, visti non necessariamente come collegati tra loro e comunque come aventi caratteristiche assai meno pericolose di quelli di banditi (nei confronti dei quali si erano assunti un ruolo di contrasto) e quindi non del tutto negative, era ancora limitato, all'inizio dell'ottocento, alla provincia di Palermo o poco più, per poi estendersi gradualmente a tutta la Sicilia.
Un "salto di qualità" impressionante ci fu poco dopo l' unità d'Italia: non solo la mafia divenne pressochè l'unica autorità reale in Sicilia, ma anche la gran parte della popolazione la sosteneva, soprattutto a causa dell'acuta crisi economica creatasi, con responsabilità da attribuirsi alla politica sabauda in quella zona d'Italia così diversa - come organizzazione sociale - dal Settentrione. Era stato lo stesso Stato italiano, per assicurarsi un certo controllo della situazione nell'isola, ad affidarsi alle cosche mafiose; e naturalmente queste agirono in modo tale da trovarsi presto a "fare le veci" del governo centrale.
Nonostante ciò, all'inizio del Novecento ancora un Ministro del Regno d'Italia, siciliano, dichiarava che "mafioso" significa "uomo d'onore" e quindi anche lui si sentiva, essendone fiero, mafioso.
Arriviamo al 1921/22: è quello il tempo in cui Giuseppe Guido Lo Schiavo diviene pretore in un piccolo paese siculo (Barrafranca: nel film Capodarso) ed ha a che fare con la mafia locale e col resto della comunità (gentil sesso compreso, aspetto anch'esso di rilievo nella sua vicenda personale). Il romanzo "Piccola pretura" da lui scritto molti anni dopo, nel 1948, ha sicuramente elementi autobiografici, naturalmente romanzati non si sa in quale misura, ma tali da scegliere per il protagonista della sua storia un nome pressochè identico al suo: Guido Schiavi, così come nel film. E' questo il suo esordio come narratore. Scriverà ancora di mafia, anche come giurista, non solo romanzi, dando di essa una rappresentazione quanto meno "indulgente"; e non è affatto un "ex" magistrato, come spesso ho letto, anzi: farà carriera, diventando addirittura presidente "onorario" (?) della Corte di Cassazione in anni in cui "mafioso" e "delinquente" non erano affatto sinonimi per la magistratura italiana e migliaia di sentenze assolutorie garantirono l'impunità ad affiliati di piccolo e grosso calibro. (3)
Sono passati dunque ben ventisei anni (tutto il ventennio fascista, la seconda guerra mondiale, il passaggio dalla monarchia alla repubblica e anche il voto alle donne) ma l'impressione è che la mafia descritta nel suo romanzo non sia affatto diversa da quella da lui conosciuta nella sua ormai lontana esperienza diretta. Possibile? Forse sì, in quella zona d'Italia così poco progredita se non altro economicamente. (4)
Però in "In nome della legge" regista e sceneggiatori (con Germi, Fellini, Monicelli, Bizzardi e Pinelli, nonchè Giuseppe Mangione, che trae il soggetto da "Piccola pretura"), se non attenuano significativamente il punto di vista del romanzo per quanto concerne il rapporto fra il pretore Schiavi e il capo mafia 'massaro' Turi, hanno comunque un gran merito: quello di mostrare già, oltre alla collaborazione fra mafia protettrice e potere economico protetto, il rapporto - o legame - d'interessi, ancor più deleterio, fra quest'ultimo (aristocratici, proprietari terrieri o, nello specifico, minerari, notabili del paese) e il potere politico (Palermo e "santi in paradiso" a Roma) e persino la magistratura (procura di Palermo).
Un inestricabile groviglio che contribuirà a portare nella realtà italiana la situazione alla inaudita gravità dei tempi più recenti, insieme alla organizzazione piramidale della mafia, scoperta fondamentale cui si arriverà quasi trent'anni dopo con le rivelazioni dei "pentiti".
Non è affatto poco ove si consideri che da allora dovettero passare tanti e tanti anni per non sentire più parecchi dei nostri politici, siciliani e non, non solo negare quei malefici intrecci ma anche affermare "la mafia non esiste"!
L'AMBIENTE:
Il film fu girato a Sciacca (5) e lo scenario, anche per merito di una fotografia in bianco e nero veramente affascinante, è rappresentato come spettacolarmente duro, suggestivo ed ostile.
E' descritto così da una voce fuori campo all'inizio del film: "...terra nuda e bruciata, muri calcinati di un biancore accecante, uomini ermetici dagli antichi costumi che il forestiero non comprende. Un mondo misterioso e splendido, di una tragica e aspra bellezza".
Ne rimase molto colpito lo stesso Germi, che non era mai stato in Sicilia.
Il senso di solitudine e di lontananza dal "resto del mondo" è immediatamente percepibile: niente da invidiare ai villaggi western sorti ai margini di sconfinati deserti. In lontananza, minacciose colline. E, in paese, facce dure, "vere" e indimenticabili.
E silenzio.
LA VICENDA: I PERSONAGGI SENZA NOME.
Un paese in cui è la mafia a tutelare i diritti delle persone. Quali? Sostanzialmente il solo diritto di proprietà, per mantenere inalterata la situazione di sempre: pochi ricchi e potenti a favore dei quali viene esercitata la "legge del più forte" (o "legge di natura") non solo contro i "malviventi" ma anche - di fatto - a scapito della stragrande maggioranza della popolazione, quella che per vivere può contare solo sulle proprie braccia. Povera gente abituata a subire che non immagina neppure di avere diritti propri e che vive nella miseria senza, per paura e per abitudine consolidata, provare a ribellarsi; e che reputa conveniente non rivolgersi alla legge dello stato, di cui non si fida, bensì non aprir bocca, convinta che l'omertà sia l'unica scelta. Un equilibrio precario che vacilla - sensibilmente - quando il lavoro viene a mancare e i poveri "braccianti" non possono più contarci perchè altri ora più poveri - gli "ex" minatori, rimasti disoccupati - sono lì, anche con minori "pretese", a tentare di sottrargliene una parte per far sopravvivere, in un modo o nell'altro, le loro famiglie. Le "istituzioni"? Assenti o colluse.
Sto parlando, naturalmente, di Capodarso settant'anni fa: oggi, mi rendo conto, una situazione del genere non sarebbe neanche concepibile in alcun luogo della nostra Italia (?).
Ma poi arriva un magistrato eroico che alla fine deciderà di restare, sull'onda emotiva del barbaro omicidio di un ragazzino senza colpe, nonostante le enormi difficoltà e i rischi personali che permangono, seppur potendo contare (?) sulla conversione alla legge da parte della mafia locale il cui capo si dice ravveduto. E allora i cuori possono aprirsi alla speranza, anche e soprattutto per la moltitudine di personaggi "senza nome" di cui ho qui parlato. (6)
E, intanto, andiamo a conoscere i personaggi che un nome ce l'hanno.
I PRINCIPALI PERSONAGGI (e i loro interpreti).
* IL PREDECESSORE del nuovo pretore. E' in esordio di film che i due si incontrano, nella stazioncina deserta. Il pretore in partenza, disilluso, fa già capire al nuovo arrivato che aria tira: lui non ha "compreso" la gente del posto e le sue consuetudini, anche se, dirà poi l'avvocato, ".... saggiamente ha operato il suo predecessore a non urtare le suscettibilità, le tradizioni ...".
-------Non ne ho individuato l'interprete.
* IL GIOVANE NUOVO PRETORE Guido Schiavi. E' il rappresentante dello Stato e delle sue leggi onesto e determinato che si trova costretto a combattere contro nemici estremamente più potenti praticamente da solo e che alla fine diventa eroe, rinunciando all'amore ed essendo ben conscio di rischiare quasi certamente la propria vita. Il suo discorso finale è quasi un testamento:
"....rimarrò qui in questo paese finchè sarà necessario e farò il mio dovere fino in fondo, con voi o da solo, fino a quando il colpo di una qualsiasi doppietta non mi manderà a tener compagnia a Paolino".
Cercare analogie fra questo personaggio e gli "eroi" di altri film mi sembra fuori luogo, ora che abbiamo purtroppo assistito nella realtà a tanti casi di magistrati eroi veri che, lasciati soli in condizioni analoghe, hanno perso la vita, scientemente, per puro senso del dovere (l'ultimo: Borsellino).
--------L'interprete è Massimo Girotti, giustamente assai apprezzato sia dal pubblico sia dalla critica (Nastro d'argento quale miglior attore protagonista). Intenso e misurato al tempo stesso, senza ammiccamenti e non eccessivo nel discorso finale, di per sè enfatico, bensì bravo a renderlo verosimile. Ho letto che dichiarò esserci stati forti dissidi fra lui e il regista, probabilmente circa i toni giusti per il suo ruolo: il risultato è stato ottimo.
Non riesco a trovare per lui alcun elogio che valga però quello tributatogli da Tommaso Buscetta che, intervistato a proposito dei colloqui intrattenuti, come pentito, con Giovanni Falcone, dichiarò che questi, nell'interrogarlo, gli trasmetteva "...la calma, la forza tranquilla della giustizia che lui rappresentava..." intraviste trent'anni prima nel giovane pretore di questo film, che gli era molto piaciuto.
*LA BARONESSA Teresa Lo Verso. Uno dei pochi personaggi non nativi della Sicilia (anche il pretore Guido non parla con inflessioni sicule, un motivo ci sarà, ma dice di essere palermitano), è lei ad essere ricca (sue le terre, sua la miniera) ma è rassegnatamente sottomessa al marito, amministratore dei suoi beni, che detesta così come detesta la cerchia degli "amici".
E' una donna infelice, che non ama, o non ama più, il marito, anche verso di lei alla fine violento: appena si incontrano, Guido e Teresa, si intuisce che sarà amore tra loro, anche se resterà incompiuto.
--------L'attrice che la impersona è Jone Salinas: scelta decisamente felice per questo ruolo, non saprei dire se perchè molto brava o per l'aspetto, veramente adatto al personaggio. Donna assai attraente, il pretore non se ne è certo innamorato esclusivamente perchè l'ha trovata subito dalla sua parte in quella difficile situazione di ostilità generale. Colpiscono i suoi begli occhi neri che un nostro "collega" (non me ne voglia se lo cito: è MrKlein) così mirabilmente descrive:
"... due occhi di rumorosa avidità d'amore". (7)
* IL 'MASSARO' Turi Passalacqua, CAPOMAFIA. "La legge qua la facciamo noi secondo le usanze. Siamo in un'isola qua. Il governo è molto lontano e, se non ci fossimo noi con la nostra severità, la malavita finirebbe per guastare ogni cosa come il loglio nel grano e nessuno sarebbe più sicuro in casa propria. Non siamo delinquenti noi, siamo uomini d'onore, liberi e indipendenti come gli uccelli nell'aria". E, alla fine: "Lei ha parlato duro, Pretore, duro come nessuno finora ci aveva parlato mai. Ma io dico che lei ha parlato anche giusto. .......Io dico, quindi, agli amici miei che è giunto il momento, in questo paese, di rientrare nella legge. ....".
--------E' sempre molto importante l'individuazione dell'attore per il principale "antagonista": ancora Germi si rivolge oltr'alpe (fors'anche perchè si tratta di una produzione italo-francese) e - come nel film precedente con Jacques Sernas - "pesca l'asso": difficile pensare per questo ruolo ad un interprete adeguato quanto Charles Vanel. (8)
Dotato di grande sensibilità, si giova di un volto duro e segnato quanto basta, capace di occhiate taglienti così come di esprimere autorevolezza, sincerità e nobiltà d'animo. Aiutato anche dalla corporatura massiccia e dall'età giusta, lo si riconosce a vista possedere il carisma dell'indiscutibile "capo". E' tutto quello che il personaggio pretende.
Ma si può anche capire, essendo l'interpretazione attenta anche alle sfumature di una personalità non monocorde, che il barone - secondo me rischiando molto, ma il film finisce prima che ce ne sia la prova - non lo tema poi troppo, al punto di osare fargli un grosso "sgarbo" con l'attentare alla vita del pretore (per il quale era già stata emessa con tutti i crismi sentenza di morte da parte dei mafiosi) dopo aver asserito: "Massaro Turi si è rimbambito, ma io no...". E che il pretore si possa rivolgere a lui, credendoci, con queste parole: "...E tu, Massaro Passalacqua, tu, che a tuo modo sei un saggio e un giusto..."
*L'INNAMORATO Paolino. Il magistrato gli si affeziona (e anche Girotti all'interprete). Paolino è l'unico, fra i paesani, sicuramente "amico" del nuovo pretore, di cui ha fiducia e rispetto e al quale chiede aiuto per riuscire a sposare Vastianedda. Una "fuitina" sembra concludersi per il meglio, ma non sarà così. Semplice, ingenuo, innamorato, sarà la vittima che determinerà la scelta finale del pretore: "L'avete ucciso tutti voi!".
--------Lo impersona, ottenendone solo complimenti, Bernardo Indelicato (doppiato da Ferruccio Amendola), che non è attore professionista bensì un diciannovenne pescatore di sarde del luogo. (9)
* LA SUA AMATA Vastianedda. Il mafioso "Ciccio" Messana vorrebbe che la madre, sua amante, gliela desse in sposa ma lei, sedicenne, ama Paolino. E' diventata celebre la scena del bacio fra i due ragazzi nella "pagghialora" (na casuzza vascia unni si sarva la pagghia e lu fienu) dove lei ha "perso l'onore", perchè inserita da Tornatore fra i baci più belli della storia in "Nuovo Cinema Paradiso".
--------La giovanissima attrice che interpreta, al meglio, questo ruolo è Nadia Niver. (10)
* LA MAMMA DI LEI Lorenzina La Scaniota. La madre di Vastianedda non vorrebbe cedere alle pressioni di Ciccio riguardo alla figlia ("E' il tempo suo..."), principalmente per gelosia: teme di perderlo.
--------Questo non facile ruolo è affidato a Nanda de Santis. (11)
* IL MAFIOSO Francesco "Ciccio" Messana. Delle sue mire ho già detto. E' uno dei luogotenenti del capomafia massaro Turi, il quale, almeno in prima istanza, non avallerà la sua accusa nei confronti di Paolino "spia" forse involontaria: "E' un ragazzo! SE .... avrà quello che si merita".
Poi, non tollererà lo "sgarbo" della fuitina del ragazzo con la bramata Vastianedda e uno sparo risuonerà infine nella piazza. Dopo il discorso del pretore, Passalacqua lo risparmierà rinunciando alla "sua" giustizia: ".... lo consegno a Vosscienza perchè sia giudicato secondo la legge dello Stato !". "Francesco Messana, in nome della legge, ti dichiaro in arresto.".
--------A questo personaggio dà vita Ignazio Balsamo, catanese, fin da giovanissimo attore teatrale di provincia. Arrivato in Sicilia per il film, Germi lo vede recitare in una compagnia dialettale e lo sceglie per la parte del "cattivissimo" Messana. (12)
* IL "CONDANNATO" Vanni Vetriolo. Per impossessarsi di due mule, ha ucciso - siamo all'inizio del film - l'uomo che le conduceva perchè l'aveva riconosciuto. Non mi pare si tratti di un vero bandito, probabilmente è stato spinto dalla miseria. Il barone se ne lamenta: è compito della mafia evitare che queste cose accadano. Vanni tenta di nascondersi ma non sfuggirà alla sentenza di morte: "Oggi abbiamo fatto buona caccia". Le mule vengono restituite al barone dai carabinieri, che indagano su questo secondo omicidio.
--------E' impersonato da Francesco (o Franco) Navarra, nativo di Castellammare del Golfo (Trapani). Aspetto e volto che restano impressi, Germi di nuovo gli affidò un ruolo (ancora Vanni, latitante) nel 1950 in "Il cammino della speranza". L'anno successivo, infine, recitò nel film di Fernando Cerchio "Il bivio", in cui era L'Americano. Non risulta altro.
* IL MAFIOSO Tano Gallinella. Le indagini del pretore e del maresciallo hanno portato al suo arresto (o fermo) per l'esecuzione sommaria di Vanni Vetriolo. Poi è tornato a piede libero. Ma nel frattempo i suoi compagni mafiosi hanno pronunciato la loro condanna per il magistrato. "Chi se ne occupa?". Turi decide: "Tano Gallinella. A lui il pretore ha fatto SGARBO". La "conversione" finale annullerà la sentenza di morte?
--------E' interpretato da Pietro Sabella, non attore, scelto in loco da Pietro Germi per questo personaggio, che chiamò Gallinella ispirandosi al suo soprannome "Jaddazzu" che in italiano significa gallo. Produceva olio nelle sue terre tra Sciacca e Menfi, dove ancora continua la sua fiorente attività - condotta dal nipote omonimo - l'azienda di famiglia nella "Tenuta Gallinella".
* IL CANCELLIERE. Almeno sulla sua collaborazione il magistrato dovrebbe poter contare: ci sono cause ferme da anni e una gran mole di pratiche arretrate. E invece: "Vede, signor Pretore, sono cose vecchie, cui nessuno ormai pensa più, a tirarle fuori ci sarebbe da mettersi contro tutto il paese...". Ma, quasi per caso, nelle prima e unica udienza verrà fuori la questione della miniera (solfatara) che ha messo in ginocchio tanta povera gente perchè chiusa da tempo nonostante un ordine di riapertura, rimasto nei cassetti della pretura!
--------Questo ruolo è interpretato da Saro Arcidiacono, attore catanese. Dedicatosi prevalentemente al teatro, ha anche partecipato come caratterista a sei film (di cui ben quattro con Pietro Germi alla regia) tutti ambientati in Sicilia o in Calabria: questo fu il primo, l'ultimo, nel 1961, "Divorzio all'italiana".
* L'AVVOCATO Faraglia. E' l'unico legale della zona, pronto ad approfittare del degrado organizzativo in quella Pretura, sostanzialmente al servizio del barone e dunque anche colluso con la mafia. Con la collaborazione del Cancelliere (il gatto e la volpe?) cerca prima di indurre anche il nuovo pretore a miti consigli e poi farà capire al barone le conseguenze gravi dell'eventuale riapertura della zolfara.
--------E' interpretato da Peppino Spadaro, dal 1933 al 1950 caratterista fra i più apprezzati (circa 40 pellicole al suo attivo) deceduto due anni dopo questo film. Talora confuso col fratello Umberto (anche Wikipedia commette questo errore proprio riguardo a "In nome della legge").
* IL SINDACO Leopoldo Pappalardo. Seppure non in contrasto palese, neanche l'autorità municipale collabora col nuovo pretore quanto sarebbe necessario - e suo dovere - dati i problemi di ordine pubblico, acuiti dalla disoccupazione dilagante per effetto della recente chiusura della solfatara.
--------Riguardo ad Alfio Macrì, che dà vita a questo personaggio, è possibile che si tratti della sua unica apparizione sugli schermi: su di lui non ho trovato alcuna notizia.
* IL PRETE Don Fifì. Anche il prete non è che la pensi molto diversamente dai "dignitari" del paese e non si rivela certo un alleato del giovane magistrato: piuttosto, sembra preoccupato che lo stato delle cose possa cambiare.
--------Il ruolo è affidato a Turi Pandolfini, uno dei volti più noti fra i caratteristi del nostro cinema fra il 1930 e il 1960 specializzatosi nei tipi di anziani burberi e scorbutici resi spesso, ma non qui, umoristici, con misura, dal suo aspetto e dallo spiccato accento catanese. (13)
* IL PROCURATORE GENERALE giunto da Palermo. "...lei, egregio collega, non ha saputo trovarsi un alleato...tutti contro si è messo, poveri e ricchi, buoni e cattivi....questo non è più posto per lei..." "Trasferire. Lei, certo, avrà pensato che il trasferimento significa la vittoria della mala gente... ciononostante mi consiglia di farmi trasferire...mi arrendo, darò le dimissioni, piuttosto...". E' il dialogo più grave del film: i "nemici" sono anche all'interno della magistratura.
--------Non ne ho individuato l'interprete.
* IL MARESCIALLO dei carabinieri Grifò. Con l'arrivo del nuovo pretore Schiavi in paese, vede rivalutato il proprio ruolo e con fierezza (ed empatia) lo coadiuva nelle indagini sull'assassinio di Vanni che portano all'arresto di un mafioso, dimostrando coraggio - anche di fronte a una doppietta puntatagli al viso - nonostante la cautela cui è abituato anche per l'esiguo numero di carabinieri di cui dispone.
--------Il bravo Saro Urzì, siciliano, fornisce di questo personaggio una splendida interpretazione, tale da fargli avere plausi unanimi da pubblico e critica, riconfermati nel tempo. E anche meritare il Nastro d'Argento al festival di Venezia del 1949 quale miglior attore non protagonista. (14)
* E infine IL BARONE Lo Verso. E' l'anima nera della vicenda, il più irriducibile avversario del magistrato. Tenta di farlo trasferire ma nell'attesa, quando capisce che se costretto, secondo la legge, a riaprire la zolfara, incomberebbe su di lui la rovina economica e anche la galera, stringe i tempi, prova inutilmente a corromperlo e infine da' l'ordine di eliminarlo. Il tentativo fallisce: "Ti ha visto qualcuno?" "No, ma... la mafia?!".
--------E' il regista Camillo Mastrocinque a ricoprire, pregevolmente, questo ruolo; e spiace, per una volta che lo si vede sullo schermo, doverlo ricordare nei panni di un personaggio così odioso (da ogni punto di vista) con tutte le risate che ci ha regalato stando dietro la cinepresa .... (15)
IL FINALE:
E' lo stesso Pietro Germi a dare la "interpretazione "autentica" del finale (non consentendone così altre "sotto traccia", che solleticavano anche me) con queste sue parole scritte quarant'anni dopo la realizzazione del film (da "Ritratto di un regista all'antica", Pratiche, 1989):
"...c'è un proverbio siciliano che non so se esiste in altre lingue del mondo, e che è molto bello e significativo, e che dice che comandare è meglio che fottere: è come un tentativo di spiegazione del fenomeno mafioso..... A distanza di anni riconosco però che la storia è un po' facile, un semplice schema da western, i cattivi da un lato, i buoni dall'altro, e poi c'è anche il mezzo buono che va con i buoni, e naturalmente occorreva il contrappeso, ed ecco il mezzo cattivo che va con i cattivi. il film mancava di un'ambizione culturale, e sono certo che oggi non lo farei così: non tanto per il finale, con il trionfo della giustizia, che, come mi raccontò l'autore del soggetto, il magistrato Lo Schiavo, è rigorosamente vero, ma era dovuto alla particolare situazione di Barrafranca....., con la particolare mafia di allora, che aveva, almeno in quei posti, anche un carattere di associazione cavalleresca animata da spirito di giustizia, di cui appunto Turi Passalacqua era il rappresentante. Ma la mafia nel suo complesso, quella di ieri e di oggi, con i suoi problemi politici e sociali, non ha niente a che fare con il mio film che raccontava solo un'avventura locale e, purtoppo, irripetibile."
Sono parole che ho letto col dovuto rispetto (e anche con un certo sollievo giacchè altrimenti questo mio scritto si sarebbe dovuto allungare ancora!) anche se in sostanza che ci sia stato il "trionfo della giustizia" (a Barrafranca nel 1948, se non nel 1922) lo ha detto Lo Schiavo, ma non mi basta per arrivare a concludere che ci sia il "lieto fine" in questo film.
Posso, debbo, accettare che Turi Passalacqua, nella sua risposta al pretore, sia sincero.
Ma quando il film finisce con questa fotografia, come qualunque spettatore mi domando, semplicemente, "come andrà a finire?", stando solo a quello che il film mi ha fatto vedere.
Il capomafia si è convertito, d'accordo, ma il mafioso accanto a lui aveva già imbracciato il fucile, l'autorità di massaro Turi era già stata ignorata da Ciccio Messana con l'uccisione di Paolino, è da ritenersi "superata" la sentenza di morte già emessa dai "sottocapi" mafiosi all'unanimità nei confronti del pretore e omologata dal capo col "l'avete deciso voi!" ?, il principale nemico del magistrato è il barone, che non ha certo dato anche lui segni di ravvedimento ed ha già tentato per conto suo di farlo uccidere, ... eccetera.
Può andare a finire, non mi sembra affatto da escludere, con l'uccisione del pretore.
E non credo probabile che la passi liscia neppure il buon Turi Passalacqua, se autenticamente "redento" come pare.
L'intervista a Tommaso Buscetta di cui ho già parlato si concludeva col dire che i suoi compagni mafiosi avevano commentato il finale con aspre critiche nei confronti del capo mafia "pentito"; esattamente: ".... il comportamento di Passalacqua era indegno di un uomo d'onore". Dunque....
RICONOSCIMENTI AL FILM:
"In nome della legge" fu realizzato nel 1948 e, proiettato nelle sale italiane nella primavera del 1949 (dopo, mi pare di aver letto, una prima già il 3 gennaio), registrò un grande successo.
Al Festival di Venezia fece incetta di riconoscimenti: Nastri d'Argento, come già detto, a Massimo Girotti e Saro Urzì quali migliori attori (rispettivamente protagonista e non protagonista).
E un Nastro d'Argento - Premio Speciale - al film "per le elevate qualità artistiche".
Ma ho letto anche di un premio "particolare" a Germi per la regia e di un altro a Ugo Giacomazzi, che diresse la musica scritta da Carlo Rustichelli. Peccato non abbia ricevuto riconoscimenti, a quanto mi risulta, anche Leonida Borboni, direttore della fotografia, che credo sia un punto di forza di quest'opera: ma era l'anno di "Ladri di biciclette".
VOTO E SCUSE:
Ho visto questo film tre volte nell'ultimo mese e mi è piaciuto sempre di più: sono arrivato a concludere che meriti le cinque stelle.
Mi scuso con il lettore per la lunghezza inusitata del mio scritto: mi sono lasciato prendere la mano dall'argomento.
Debbo anche scusarmi con tutti gli utenti per aver pubblicato questo mio commento al film in data 12 giugno 2015 in versione incompleta ed averlo completato (salvo errori che sarei grato mi venissero segnalati) soltanto una settimana dopo.
Cherubino
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(1)
Lauro Venturi pubblicò questo articolo sul 1° numero di "Il cittadino", un foglio che si definiva "Settimanale dell'Italia Socialista", di cui uscirono pochissimi numeri nella primavera del 1949; Salvatore Lo Leggio lo ha "riscoperto" e immesso in rete nove mesi fa (senza peraltro trovare notizie dell'autore) con questo commento: "Non so quale mestiere Lauro Venturi facesse nella vita, ma da questo articolo su Germi, acuto e profondo, mi pare che avesse i numeri per riuscire un eccellente critico cinematografico":
"Alcuni mesi prima di iniziare la lavorazione del suo film In nome della legge Pietro Germi ci diceva della sua intenzione di fare con questo film un western italiano, un film d'avventura che avrebbe seguito, per quanto riguarda l'impostazione e la narrazione della trama, le norme del film western americano. Ciò che attraeva particolarmente Germi verso l'impostazione western era la possibilità di creare una narrazione rapida, drammatica, che trovasse la sua ragion d'essere in sè stessa.
A tutto ciò Germi è riuscito, e ha persino sorpassato il proprio scopo. In nome della legge è un eccellente film d'avventura ma è soprattutto un eccellente film. Dello stampo americano rimangono varie tracce, quasi tutte rinnovate dalla visione e dalla sensibilità di Germi. L'arrivo del pretore al villaggio è degno di qualsiasi tradizionale arrivo del 'stagecoach'; il 'barroom' del West lo ritroviamo sotto forma di 'Caffè e Tabacchi'; i cavalieri della mafia si profilano all'orizzonte di una collina come i loro prototipi pellerossa, e certi tipi siciliani sono stati scelti senza dubbio per la loro somiglianza con gli indiani d'America. La musica stessa del film, scritta da Carlo Rustichelli, ricorda le sue origini western, calcando l'azione con dei temi larghi come le praterie e persino un accenno alla chitarra, tradizionale in Sicilia come nel West.
Più profondamente western è il personaggio stesso del pretore, il quale deve essere coraggioso, nobile, puro in anima e in corpo come un boy-scout per aderire alle regole del gioco: come Wyatt Earp, eroe di Sfida infernale, questo pretore si dedica alla missione pericolosa di fare rispettare la legge. Americano anche il maresciallo della polizia, aiuto e amico dello 'scheriff-pretore', personaggio al quale viene di solito affidato in America il 'comic-rrelief', le battute comiche. Ma anche questo è stato rinnovato da Germi, e diviene un personaggio umano, forse il più riuscito pscicologicamente di tutto il film.
Deviazione importante dal concetto americano è il personaggio femminile, introdotto per dimostrare che il dovere è più importante dell'amore, rappresentato qui dalla moglie del barone. Maltrattata dal marito, si innamora del pretore ma viene poi abbandonata quando quest'ultimo si decide per il dovere. La moglie del barone prende il posto della maestrina o della cantante del western. Ha dovuto dispiacere a Germi non poter, per restare fedele alla materia, mettere nel suo film una qualche cantante, magari un can-can. E infatti la parte femminile ne risente. Le due scene d'amore (amore puro, ideale, come conviene ad un 'scheriff-cowboy') rallentano l'azione, la scoloriscono. Il tema non è stato interpretato qui con altrettanta schiettezza degli altri elementi del western che, come abbiamo detto, sono stati trasformati astutamente in elementi umani e vaidli da Germi.
In certe attitudini di fedeltà per il western, Germi è stato 'plus royaliste que le roi'. Di recente, con Ford e Vidor come registi, il film western si era permesso delle innovazioni, ad esempio la creazione dell'atmosfera e dell'ambiente con elementi visivi estranei alla storia: basta ricordare i mille giochi di luce di Sfida infernale, nel quale l'operatore Toland non si lasciava mai sfuggire l'occasione di compiacersi sulle superfici, sia del deserto che della pelle degli attori (ad esempio Linda Darnell ferita). Ed era diventato tradizionale il cantante seduto sugli scalini di legno del 'postoffice' che ci dava un trenta secondi melodici prima che l'azione riprendesse. Tutto ciò Germi non si permette, per non fare deviare la narrazione, e questa sarebbe l'unica vera critica che gli si potrebbe fare... Eppure, se egli non ha trovato una poesia, l'atmosfera penetra nel film lo stesso e ne allarga lo scopo. I paesaggi bianchissimi che si direbbero ricoperti di neve (opera esperta dell'operatore Leonida Borboni), il villaggio denudato che appare pesantemente ostile al pretore, come i suoi abitanti seduti immobili su scalini di pietra, e soprattutto quelle straordinarie facce della popolazione locale, danno a tutto il film quel suo carattere di verità e di vita intensa.
Malgrado la sua intima parentela col western, In nome della legge riesce italiano. Italiana soprattutto è la soluzione finale del film: invece del duello all'alba, la sparatoria che fa tremare la ragazza e elimina il nemico, In nome della legge risolve l'azione con un discorso, drammatico quanto si vuole, ma un discorso, una lettera aperta ai banditi, alla quale i banditi rispondono con un gesto nobile che li salva agli occhi della legge. Italiano anche tutto l'elemento della gelosia di una donna per uno dei banditi, e l'amore dei due bambini nella cascina, il tutto risolto con delicatezza e senza l'esuberanza siciliana. Basta confrontare una battuta come 'bacio le mani', in Anni difficili di Zampa con un 'bacio le mani' di Germi, per rendersi conto della superficialità di Anni difficili e dell'energia veristica e umana di In nome della legge.
Tutto ciò mostra che Germi ha una visione immediata e schietta di cinematografica, che sa risolvere i problemi di messa in scena e di inquadratura non soltanto dal punto di vista della narrazione dei fatti, ciò che lui considera così importante, ma bensì di una personale maniera di narrare questi fatti, non in sottomissione alla trama, ma piegando la storia all'arte cinematografica".
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Volendone tener conto si potrebbe dire - riflettevo - che abbia creato un "genere" nuovo che si potrebbe chiamare "southern" ("western" del Sud): è proprio stato detto, un po' più tardi, nel 1952, con l'uscita di "Il brigante di Tacca del lupo", altro film dello stesso regista.
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14 Giugno 1969, Corte d'Assise di Bari: "....non esiste identità giuridica tra mafia e associazione per delinquere" e pertanto "....non si potrà attribuire alla qualifica di 'mafioso' se non il valore di semplice qualità personale rivelatrice di una spiccata potenzialità criminale ma non ancora produttiva di effetti penalmente rilevanti...."; risultato: assoluzione, o pene lievi, per quasi tutti i 64 imputati, tra i quali Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Luciano Liggio.
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La visione "indulgente e romantica" che Lo Schiavo dà della mafia sarà confermata anche nel 1950 dal suo romanzo successivo "Gli inesorabili" e dal film omonimo diretto da Camillo Mastrocinque (il "barone" del film di Germi): c'è un altro barone, che viene descritto - a quel che ho capito, ma non l'ho visto - come uno dei "buoni", così come il 'capomafioso' ancora interpretato da Charles Vanel.
La scelta di Germi di ricavare un film da un testo che accreditava una concezione assai "discutibile" del fenomeno mafioso fu criticata, all'epoca, da più parti: anche Leonardo Sciascia glielo "rimproverò". Questi, nel suo libro più famoso - il romanzo giallo "Il giorno della civetta" - fu il primo scrittore a parlare dei DELITTI della mafia e delle sue connessioni con la politica, quando ancora, secondo il cardinale di Palermo, era "una invenzione dei comunisti". Ma siamo già nel 1961; e l'omonimo film di Damiani uscirà solo nel 1968, dunque ben vent'anni dopo "In nome della legge".
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Sciacca è il paese nel quale c'era stato il primo omicidio di mafia del dopoguerra, vittima un sindacalista presidente della locale Camera del Lavoro, Accursio Miraglia, ucciso il 4 gennaio 1947.
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Speranza che è destinata a diventare realtà? Auguriamocelo. Ad essere pessimisti, un'alternativa potrebbe essere emigrare, come molti fecero nel dopoguerra da tante parti d'Italia. Solo come curiosità, poichè non è assolutamente lecito considerare il successivo film dello stesso Germi "Il cammino della speranza" come "seguito" di questo, ricordo che in quel film (del 1950) la disoccupazione non si risolve, a Capodarso, perchè la "miniera" rimane chiusa e un nutrito gruppo di minatori, sempre senza lavoro, non trova altra possibilità che tentare un espatrio, verso la Francia, che si rivelerà rocambolesco, perchè reputano che non valga più oltre resistere o starsene oziosi ad aspettare una lontana e chimerica giustizia sociale.
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Sbagliando, ricordavo "rovinosa", che pure non mi sembra male ove ci si riferisca agli occhi della baronessa.
Jone Salinas, calabrese, è un'attrice che proprio non ricordavo benchè, fra il 1939 e il 1964, abbia preso parte a ben 25 film.
Ma l'unico ruolo veramente importante fu quello della baronessa in questo film. Poi, nonostante questa sua bella interpretazione, non ebbe occasioni interessanti. Dopo il 1954 partecipò solo a tre film: uno nel '58 - "Totò e Marcellino", regista il marito Antonio Musu - e due nel '64, titoli trascurabili, poi chiuse col cinema.
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Charles Vanel, grande attore sia di teatro sia di cinema (oltre 200 film) ma consacrato tale solo in un tempo successivo a questo film: mancava infatti dagli schermi da oltre quattro anni.
Non si può non ricordare almeno la sua partecipazione ai due capolavori di Clouzot "Vite vendute" (che gli fruttò il premio per la migliore interpretazione maschile al festival di Cannes del 1953) e " I diabolici" dell'anno successivo (con l'indimenticabile "casco d'oro" Simone Signoret).
Lo ricordo nella parte del giudice che "condanna a morte" Alberto Sordi in "La più bella serata della mia vita" di Ettore Scola del 1972, film che io apprezzai molto ma in Italia non ebbe un gran successo.
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Bernardo Indelicato, semplice e ingenuo come il suo personaggio, non ebbe un futuro nel cinema. Dopo la partecipazione a questo film per un compenso di 95.000 lire (di cui 15.000 per il povero mancato guadagno dalla pesca), si lasciò sfuggire l'occasione, diversi anni dopo, di recitare ancora con Germi in "Un maledetto imbroglio" (la parte fu poi data a Nino Castelnuovo) essendosi dileguato dopo un paio di lezioni cui dovevano, secondo i patti, seguirne diverse altre dal momento che "stentava a leggere".
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Nadia Niver credo abbia recitato, poco prima e poco dopo questo film, che per lei fu il più importante, solo in "Molti sogni per le strade" di Camerini e in "Domani è un altro giorno" di Léonide Moguy.
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Nanda De Santis nel 1949 recitò in "Campane a martello" di Luigi Zampa; poi, una lunga assenza. Nel 1959 Germi le offrì un ruolo fuori del comune per il quale penso molti la possano ricordare: quello di una vecchia fattucchiera, Zamira la sdentata, in "Un maledetto imbroglio". Ultimo film nel 1960: "La banda del buco", diretto da Mario Amendola.
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Dopo questo film, Ignazio Balsamo si trasferì a Roma e divenne un quotato caratterista, specialmente apprezzato per la sua voce possente. Apparve in circa 80 film e si dedicò anche, saltuariamente, al doppiaggio. Scrisse due commedie teatrali in lingua siciliana e fu infine produttore cinematografico.
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Turi Pandolfini, dopo una lunga attività teatrale con il famoso Angelo Musco, suo zio, aveva esordito nel cinema, trentaquattrenne, già nel 1917, in un film muto, "San Giovanni decollato", trasposizione della omonima farsa scritta da Nino Martoglio appositamente per Musco che il regista Telemaco Ruggeri volle interpretata sugli schermi dagli stessi attori che l'avevano portata al successo in teatro.
Noi ricordiamo la versione del 1940, ovviamente parlata: il protagonista doveva essere ancora il catanese Angelo Musco, che però morì improvvisamente cosicchè il regista Amleto Palermi "ripiegò" su Totò il quale si riteneva indegno di sostituirlo ed invece venne elogiato dalla critica.
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Saro Urzì, prima dell'incontro con Germi nel 1948, aveva già recitato in 18 film, come caratterista capace di ricoprire ruoli anche non semplici. Successivamente, partecipò a quasi tutti i film dello stesso regista, in parti sempre più impegnative fino alla più importante di tutte, quella di don Ascalone in "Sedotta abbandonata" del '64, per la quale fu premiato come miglior attore al festival di Cannes dello stesso anno ed ebbe anche, nel '65, il suo secondo Nastro d'Argento, questa volta come protagonista. Fu il braccio destro del sindaco Peppone - il Brusco - in tutti i cinque "Don Camillo..." e lavorò con i maggiori registi italiani del tempo e anche con Chabrol e Losey. E con Coppola nel 1972, che gli affidò un ruolo in "Il padrino". In totale ben 85 film fra il 1939 e il 1976.
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Camillo Mastrocinque è stato attore anche in altri tre film, in ruoli però meno rilevanti. Come regista (a volte nei titoli di testa Mastro5) ha diretto fra il 1936 e il 1968 poco meno di ottanta film, sbrigativamente accomunati nell'insieme come "produzione commerciale". Ma è "tecnicamente" impossibile dirigere Totò una decina di volte (grazie Camillo!) senza sfornare alcun capolavoro. Ricordo alcuni titoli, scegliete Voi: "Siamo uomini o caporali?", "Totò, Peppino e la ... malafemmina", "La banda degli onesti", "Tototruffa 62". Può bastare?
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