Regia di Maren Ade vedi scheda film
Lui è uno sgradevole prodotto della fantasia. Ma è più umano ed autentico di tutti gli altri.
Non esiste. Questo personaggio è solo un nome. Una didascalia convenzionale, apposta ad una parrucca spettinata e una dentiera finta. È il ruolo dilettantesco di un uomo sgraziato e ridicolo, che si pavoneggia della propria rozzezza, e lo fa un po’ per celia, un po’ per provocazione, un po’ a fin di bene. Il suo istrionico vagabondaggio nasce per curiosità e per amore di una figlia, che scopre improvvisamente di non conoscere, di incontrare con imbarazzo, senza calore, senza intimità, senza riuscire a decifrarne la (in)felicità. Questa storia è tutta recitata. Contemporaneamente è il copione amaramente sfilacciato di un’improvvisazione che, nella seriosità, continua a costeggiare il demenziale. La tragedia vera si disputa, in fondo, proprio sul filo di un precipizio che promette ad ogni passo di volgere l’angoscia in una risata beffarda, sciogliendo il terrore in un macabro scherzo di carnevale. Winfried indossa la bruttezza come una maschera che, diabolicamente, fa sembrare tutto stupido e vano, indegno di starci a pensare, di versarci sopra una lacrima. La sofferenza nasce e si diffonde per colpa di chi crede troppo nella sua missione, nell’importanza di sapere decidere, di avere il potere di cambiare il mondo. Ines è consulente per una multinazionale, parla un eccellente inglese, è ineccepibilmente professionale, dimostra di sapere il fatto suo. È l’algida bambola che sprizza malizia e strategia da tutti i pori, saggia e imperturbabile, furba e indipendente. Fa rabbia pensare che non si renda conto di essere solo parte di un banalissimo gioco. L’economia, a volte, è un tabellone con pedine umane, difficile per chi le manovra, doloroso per chi le impersona, divertente per nessuno. Per spezzare questo noioso incantesimo circense ci vuole la selvaggia incursione in pista di un volgarissimo clown, spontaneo non solo perché non civilizzato, ma soprattutto perché alla composta e ricercata ipocrisia dell’establishment imprenditoriale oppone una menzogna così spudorata da sembra persino puzzolente. Il suo cattivo odore giunge come un arioso toccasana, in mezzo a quell’atmosfera rarefatta fino all’asfissia, che toglie l’ossigeno al cervello per rendere asettica e meccanica ogni singola parola. Sotto quei costumi da robot forse non ci sono corpi naturali. Per fortuna giunge un ospite sgradito e inatteso, a far schiacciare un alluce contro un divano letto. Da allora, finalmente, un piede di carne comincia a far male e a sanguinare dentro la scarpa stretta con il tacco a spillo. La manager rampante zoppica, percorrendo il tracciato della sua inarrestabile carriera. E, per una volta, piange di cuore, per un motivo vero. Da qualche parte è emerso il raccapriccio autentico ed atavico, quello delle battaglie combattute a mani nude, delle lotte perse contro la morte, dei mostri innominabili che non hanno volto, né occhi, ma solo un’identità misteriosa e animalesca, sepolta dentro un’informe massa di pelo. Winfried non ne ha paura. Quell’ancestrale orrore è il suo fedele alter ego, il suo premuroso angelo custode. Il mito barbarico che salva dall’alienazione. La favola bruta che scoperchia la verità sbandierando la bugia. La follia dell’istinto scaccia quella artificiosa e devastante della mente. È l’inferno che abbraccia affettuosamente la terra, la sua compagna di avventura, il parto delle sue stesse viscere. La consola, mentre la stringe forte, dispensandole leggerezza e ironia, per distoglierla dall’inutile e crudele illusione di poter, un giorno, aspirare al paradiso.
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