Regia di Mohamed Diab vedi scheda film
Tff 34 – Festa Mobile.
Titolo scelto per l’apertura della sezione Un certain regard di Cannes 2016, Clash catapulta lo spettatore all’interno dei disordini che hanno travolto il popolo egiziano nel 2013. Il regista Mohamed Diab trova un espediente narrativo eccelso per inquadrare una questione esplosiva che riflette differenze estremizzate, tali da compromettere il dialogo a livello globale.
Dopo che il golpe militare ha destituito il presidente Mohamed Morsi, le piazze di El Cairo sono prese d’assalto dai manifestanti. La polizia è presente in forze, basta un semplice gesto considerato fuori luogo per far scattare l’arresto; è così che un gruppo d’individui – composto da giornalisti e principalmente da chi è pro e chi contro la Fratellanza musulmana - si ritrova all’interno di una camionetta, costretto a condividere uno spazio angusto per lunghe ore, praticamente abbandonato.
Ancora una volta, è un luogo chiuso a ergersi protagonista ma, al contrario di quanto succede il più delle volte, è funzionale a dettare tante linee guida che seguono a cascata.
È infatti il modo migliore per inscenare un confronto che dalla violenza è obbligato a passare al confronto, in uno spazio fortemente simbolico, con ideali scritti e posizioni consolidate nel nome di entità superiori, che rendono secondario, per non dire ininfluente, ogni altro legame.
Sventolano le bandiere, tutto lascia presupporre che non possa nascere nulla di buono, e in fondo la realtà tracima ogni argine umanamente costruibile, ulteriori divisioni si frappongono tra le esistenti, in un ginepraio che abbassa il livello del pensiero.
Il linguaggio verbale è diretto, lo diventa sempre più, lo sguardo interno non dimentica quello esterno - con alcune soluzioni registiche che aprono la visuale andando ben oltre - così che un fitto reticolato di dialoghi ad alta voce è portato a guardare oltre, lo spirito di sopravvivenza non può che andare al di là del mondo fuori, tra confessioni e sensi di colpa.
Uno spazio, quello esterno, che invece non vuole sentire parlare di dialogo, con un clima in ebollizione, una violenza fuori controllo che preme per il sangue, ben disposto al linciaggio, declinato all’odio profondo.
Uno sguardo intelligente e dall’ampia visuale, Mohamed Diab riesce a gestire una materia tumultuosa, ricorda come l’unione rappresenti la forza ma anche che viviamo in un mondo sottosopra - con la camionetta a farne triste allegoria - incapaci di ascoltare, troppo fermi su posizioni drastiche che non sanno/vogliono ascoltare, destinate a portare nella peggiore delle direzioni.
Un disorientamento generale reso in maniera viva e truce, altamente drammatico senza dimenticare epifanie di umana fratellanza – l’essere umano messo alle strette può ancora sorprendere - che getta l’amo per una possibile speranza, ben sapendo che solo nel futuro qualcosa di meglio è possibile, mentre per la realtà odierna è ormai troppo tardi.
Terribilmente necessario nel messaggio, così come nel contenuto, ma anche attento nel proporre un punto di vista cinematografico, interessante tanto quanto l’argomento stesso.
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