Regia di Dorota Kobiela, Hugh Welchman vedi scheda film
I colori vivono, brillanti o opachi, e si muovono nelle immagini, come se la mano di Van Gogh fosse sempre presente, a ritoccare, ridefinire, trasformando i volti, gli spazi e i luoghi in un’esperienza ai limiti della psichedelia, dove ogni pennellata freme e vibra in attesa che la prossima riveli nuovi particolari attraverso sfumature emotive che penetrano lo sguardo così come nei dipinti del pittore olandese, dove sono i cromatismi a creare esplosioni di gioia o dolore, felicità o angoscia.
In un incastro narrativo simile a un’indagine si ripercorrono gli ultimi giorni di vita di Van Gogh, fra testimonianze e ipotesi che cercano di rendere meno credibile un suicidio irrazionale e illogico, arrivano e passano le maree della malinconia in cui finisce per affogare l’esistenza di questo uomo, le parole di chi l’ha conosciuto, di chi gli è stato vicino, quelli che lo hanno deriso, ognuno che non ha saputo cogliere in tempo la vivida bellezza delle sue opere.
Ci aveva già pensato Kurosawa a farci camminare fra questi capolavori ma qui l’immersione diviene totale, la realtà filmica si piega alla percezione pittorica di Vincent, la cogliamo attraverso le sue tele e da esse si aprono gli scenari di una finzione che ribadisce la tragica scissione interiore di una dei precursori dell’arte contemporanea, un genio incompreso e incapace di monetizzare il suo lavoro, un solo quadro venduto in vita, centinaia ora appesi nelle gallerie di tutto il mondo.
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