Regia di Ivan Silvestrini vedi scheda film
Leggere “Sergio Bonelli Editore”, nel lungo elenco dei produttori e co-produttori che scorre nei titoli di testa e in quelli di coda, fa un bell'effetto.
A suo modo, Monolith è già un titolo “storico”. Ma solo e soltanto perché si tratta della prima incursione nel mondo di celluloide della gloriosa casa editrice italiana.
Sviluppato in parallelo all'omonimo fumetto edito naturalmente sempre dalla Bonelli in due volumi – di cui condivide il soggetto, ad opera del curatore di Dylan Dog, Roberto Recchioni, il co-sceneggiatore Mauro Uzzeo e Lorenzo “LRNZ” Ceccotti (disegnatore dell'albo e responsabile di scenografie e storyboard nonché ideatore dell'auto Monolith per il film) ma non lo sviluppo del copione (insomma le storie dei due medium percorrono strade differenti) – la pellicola diretta da Ivan Silvestrini è il classico progetto italiano con “ambizioni” internazionali (attori e location americani, lingua inglese).
Ambizioni mal riposte.
Negli Usa – evidentemente mercato di punta dopo/assieme a quello italiano – è stato già distribuito a dicembre dello scorso anno come tv movie della Lifetime (!!) con il titolo di Trapped Child; senz'altro più onesto, nella sua prevedibile, piatta imbeccata da thriller per famiglie. Una strada inequivocabile ...
Commenti e riscontri critici, d'altronde, non lasciano dubbi: il gradimento è assai basso.
Presentato quindi nelle sale nostrane in piena estate – in un'estate probabilmente mai così povera di uscite –, con la speranza di racimolare e recuperare qualcosa, Monolith si rivela un prodotto medio/mediocre che di “monolitico” ha unicamente il titolo
Se riflessioni e sottotesti – la falsa sicurezza di una tecnologia invadente che può mutare in trappola mortale, le tortuose, complesse e angosciose vie del senso di protezione materno verso i propri figli – hanno percorsi elementari, basici e rotta intuibile con discreto anticipo nonché inevitabile approdo, è soprattutto lo script ad affossare l'opera in territori d'assolata limitatezza
Una scrittura assai debole (a otto mani, mai un buon segno …), corredata di svolte tendenti all'assurdo (compresa quella che le permette “liberare” la macchina), intermezzi irrilevanti e pure malfatti (la parentesi alla stazione di servizio; quella onirica a cui non si crede nemmeno per un secondo!) e un andamento generale sempre poco credibile (ok, in pieno deserto, oltre quaranta gradi di giorno: come può il bambino chiuso dentro, oltretutto asmatico, sopravvivere?); incapace altresì di dare un minimo di spessore ai personaggi. Che poi, in sostanza, è uno solo: la mamma.
Una figura dotata di pochi, modesti, abusati equipaggiamenti e optional (considerata la centralità del ruolo: sta in scena dall'inizio alla fine …): tra un trascorso strabattuto (la carriera di leader di una band femminile lasciata per fare la mammina a tempo pieno) e un presente di rimpianti e paranoie (il marito assente, probabilmente adultero) il paesaggio concepito è desolante. In aggiunta, la scelta dell'attrice protagonista è – eufemismo – infelice: a Katrina Bowden (una carriera di ruoli e apparizioni tv e horror di quart'ordine) si può giusto riconoscere l'indubbia avvenenza. E basta. Per il resto, meglio lasciar perdere (imperdibile quando urla – sì, urla/ringhia – a un lupo intento a divorare simpaticamente il cadavere di una bestia: il lupo scappa, il pubblico ride. Che cagna!).
Oh, e poi c'è l'auto.
Il design è carino ma nulla di così accattivante – né granitico e minaccioso, possente, oltre che "fisico" – di come titolo, logo e intenzioni vorrebbero suggerire. Una “supercar” guidata da un'intelligenza artificiale di nome Lilith (come il personaggio creato da Luca Enoch per la Bonelli) a cui nella versione originale presta la voce Katherine Kelly Lang (Brooke di Beautiful): in pratica una KITT in gonnella, altrettanto invadente e irritante ma meno geniale
Un trascurabile accessorio.
Altro peccato mortale è la regia. Piatta, di servizio, insufficiente. Ivan Silvestrini non riesce a gestire minimamente né la tensione che la storia richiederebbe (l'unica sequenza azzeccata è quella preceduta dall'immagine fissata sulla locandina, quando la Bowden attacca disperata l'auto con una grossa chiave inglese) né il ritmo (la durata non supera i novanta minuti eppure i tempi morti e gli sbadigli si palesano con sorprendete regolarità: ripassarsi Locke, per le parti ambientate dentro l'abitacolo, non sarebbe stato affatto un male, eh) né, ancora peggio, a rendere la “presenza” del deserto (colpa da condividere con il responsabile della fotografia).
Di notte, banalmente sparisce. Di giorno, le riprese si limitano a un girato cartolinesco, neutro, senz'anima. Uno scenario – l'iconico deserto dello Utah – incidentale, poverissimo.
Finale “degno” (d'un tv movie della Lifetime ...) prima dei liberatori titoli di coda.
Come dire: buona (carina) l'idea, bellino pure il sito ad hoc, scarsa la realizzazione.
Alla Sergio Bonelli andrà meglio la prossima volta, si spera.
[p.s.: non ci azzecca una beneamata cinquecento scassata però il titolo del titolo m'evoca inevitabilmente quello di un album dei mastodontici Monster Magnet. Monolithic baby!]
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