Regia di David F. Sandberg vedi scheda film
Dall’atavica paura del buio e di cosa al suo interno possa celarsi, ai labirinti contorti della mente, alle sue stanze oscure, ai segreti che nasconde, ai mostri che è in grado di generare
“exit: light, enter: night”
Nel buio, lontano dalla luce, vive Diana.
Diana è l’oscurità fatta carne, è sua essenza e sostanza,
è ciò che non esiste o, meglio, che non si vede alla luce del sole, che la superficie non riflette, che l’apparenza non coglie, che l’occhio fugace e distratto non registra,
perché la sua incontrastata dimora sono le nerissime, insondabili, sconosciute pieghe delle nostre fragili esistenze.
Diana è la metà oscura, quella parte di noi maligna, malata, distruttiva, che normalmente riusciamo a controllare e gestire, affinché rimanga relegata in un angolo (buio) della nostra mente, disarmata, resa innocua, impossibilitata a far danni, prima di tutto a noi stessi, e a mietere vittime, poi, tra coloro che, ignari, ci circondano.
Eppure, capita sovente che Diana riaffiori dagli abissi del nulla color pece, che abbatta quei muri mai troppo robusti in cui è stata prudentemente rinchiusa fin dal primo vagito emesso, urlando la sua rabbia e il suo odio per non essere stata mai considerata o, ancora peggio, per essere stata messa da parte e dimenticata, impaziente, una volta libera(ta), di dettare le regole del suo gioco macabro e perverso, di risucchiare nel buco nero di cui è fatta ogni cosa e persona che le graviti attorno.
Perché annientare è il suo unico, assoluto imperativo.
Impossibile salvarsi da Diana.
Lei è l’ombra che ciecamente insegue, è un marchio a fuoco sulla pelle, una maledizione da cui non è dato liberarsi.
È un terribile fardello, una pesante croce da condurre e con cui convivere se non si è abbastanza forti da voltarle le spalle.
Oppure non si è capaci o, ancora, non si vuole abbandonare al proprio tragico destino chi l’ha partorita e l’ha resa quel mostro spaventoso, intransigente, crudele e spietato che ci osserva ghignante dal profondo cuore delle tenebre, forte al punto da stravolgere ed appropriarsi delle vite degli altri per poi spezzarle definitivamente col suo carico di devastazione e sofferenza.
Lights out è un’opera formalmente povera, scarna ed essenziale, non possiede particolari guizzi stilistici né propone soluzioni estetiche degne di nota, piuttosto, nella messa in scena pare proprio voler restare fedele all’idea di partenza, semplice ma potente, che da sola riesce a tenerla in piedi per la sua breve, giusta, durata.
Coraggiosamente spogliato di inutili, dispersive digressioni narrative come di pesanti orpelli figurativi, il film, giocato tutto sul cortocircuito tra luce ed oscurità, va dritto al nocciolo della questione facendo guadagnare in fluidità e agilità il breve ma intenso racconto, che ci sorprendiamo a guardare con nutrito interesse.
A giovarne sono i livelli di tensione (e la nostra attenzione), che finiscono, così, per mantenersi alti, innervandosi uniformemente lungo tutto l’arco della vicenda.
Lights out si muove sugli stessi binari di illustri titoli antecedenti, come Haute Tension (di Alexandre Aja), Halloween II (di Rob Zombie) e Babadook (di Jennifer Kent), per citare alcuni -incisivi- di recente produzione, dove il mostro al centro della narrazione non è altro che la proiezione, concreta e tangibile, di un disagio mentale.
(Haute Tension)
(Halloween II) (Babadook)
Ancora una volta, dunque, il cinema horror, utilizzando gli inossidabili stilemi che lo contraddistinguono e sfruttando intelligentemente il potere seduttivo, illusorio-ambiguo-ingannevole e insieme rivelatore dell’immagine, riesce a farsi efficace metafora della condizione umana colta nel suo faticoso incedere, nel suo sconvolgente, disperato esistere.
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