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Lights Out: Terrore nel buio

Regia di David F. Sandberg vedi scheda film

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La recensione su Lights Out: Terrore nel buio

di scapigliato
7 stelle

Il problema del cinema horror contemporaneo, come già spiegato altrove, è il linguaggio main stream. L’horror da ormai vent’anni fa bottega ed escluse non poche produzioni è un cinema che rifà se stesso non solo tematicamente – ghost stories con bambini che tornano dal passato o comunque oscure presenze, demoni e altro a infestare case e bui corridoi – ma anche linguisticamente apportando ben poco alla discussione sul genere e appiattendo generalisticamente i codici visivi e la grammatica del terrore.

L’impersonalità dello stile, la modulazione narrativa ripetitiva e dalla parabola prevedibile e riconoscibile ad un pubblico commerciale, il montaggio narrativo, il tema musicale che invece di dare anima all’opera la omologa ad altre decine di pellicole, sono tutte caratteristiche tecniche che non permettono all’horror di essere quel territorio di perturbazione e di creatività linguistica, di rappresentazione e sintesi simbolica della vita e delle sue pieghe più oscure e misterriose che dovrebbe essere e che è stato sia alle origini del genere stesso, così come durante le sue epoche d’oro, dalla Hammer al New Horror.

È anche il problema di Lights Out, tipica ghost story neosecolare prodotta da James Wan, che ha tutti gli elementi classici – o forse banali? – del caso: bambini protagonisti, bambini che non possono chiudere gli occhi e dormire, case infestate, spettri minacciosi dal passato, luci e molti angoli bui. La paura del buio, si sa, è alla base della teoria del terrore fin dal gotico settecentesco – Il sonno della ragione genera mostri di Goya (1797) o L’Incubo di Füssli (1791), come esempi iconografici – e in questi primi lustri del nuovo secolo, complice quella maledizione di The Ring (2002), è stata musa ispiratrice per alcune pellicole come Al calare delle tenebre (2003), Boogeyman (2005), Non avere paura del buio (2011), The Conjuring (2013), Before I Wake (2016) e appunto Lights Out (2016).

Quasi tutti i film horror main stream usciti dopo The Ring parlano di case con presenze spettrali, case che diventano piccoli inferni domestici, bui, scuri, labirintici, con al centro sempre bambini come protagonisti. La soglia della sopportazione è ormai arrivata al limite. Il pubblico che non ha gli strumenti culturali e critici per saper leggere un film, in questo caso di genere, e di genere horror, continuerà ad andare al cinema a vedere queste pellicole tutte uguali, a saltare sulla sedia mangiando pop-corn e commentando a fine visione che il film era davvero fatto bene, bella la fotografia e che belle scene di paura! Il trionfo della banalità e della mediocrità critica, ma anche sacrosanta fiera popolare.

Il film dello svedese David F. Sandberg, autore con la moglie del corto virale in rete che acchiappò la fantasia di James Wan, ha comunque dal canto suo alcune caratteristiche che fanno di Lights Out un oggetto più divertente e appassionante di tanti altri titoli. Innanzitutto, il piccolo Gabriel Bateman, come tutti i suoi coetanei, è trascinante e perfetto, mentre il resto del cast, da Maria Bello, Teresa Palmer, il “figo” (?) Alexander DiPersia e l’apparizione incipit di Billy Burke, rifanno quello che altri attori avevano già fatto al loro posto in film simili. Il manierismo recitativo degli attori non basta ad affondare Lights Out che grazie ad un gioco intelligente e ben ricreato di luci e oscurità – da cui una gamma di colorazioni pop che svegliano l’attenzione dello spettatore allenato – riesce a materializzare il concept del film grazie alla forma, più che attraverso il testo. Inoltre, va apprezzata la figura spettrale di Diana, interpretata da una vera attrice, o meglio stuntwoman, che ha dato credibilità e senso plastico all’orrore. Peccato che tutto proceda come al solito lungo i binari comodi e sicuri dell’horror commerciale, molto controllato e preventivamente calibrato. Insomma, la morte del genere.

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