Regia di David Frankel vedi scheda film
Film sbagliato oltre che mal scritto: quello di David Frankel (Il diavolo veste Prada, Io e Marley) è un pasticcio che, complice anche la decisione folle di distribuirlo a ridosso delle vacanze natalizie, è diventato anche un mezzo disastro. La vicenda è tutt’altro che natalizia, per quanto ambientata attorno a Natale: si tratta di un vero e proprio affondo nel dolore di un padre, Howard (uno spento, e non solo per esigenze di copione, Will Smith) che vive senza uno scopo dopo che la figlioletta di appena 6 anni è stata portata via da un tumore che spaventa solo a sentirne il nome. La sua storia personale si interseca con quella dei tre soci di un’agenzia pubblicitaria che vorrebbero dimostrare l’incapacità dell’uomo di intendere e volere per estrometterlo dalle scelte societarie. Tutti e tre personaggi problematici, a loro modo: c’è chi come Whit (Edward Norton) cerca di ricucire un rapporto con la giovane figlia che vive con la madre da cui ha divorziato male da tempo; chi, come Claire (Kate Winslet), donna in carriera single, sta invece pensando di rivolgersi a una clinica per l’inseminazione artificiale e passa le sue tristi serate casalinghe a sfogliare cataloghi di prestanti donatori; chi infine come Simon (Michael Peña) combatte da tempo una propria personale battaglia che non riesce ad ammettere a se stesso prima ancora che alla famiglia. I tre, per aiutare il socio depresso, hanno la bella idea di ingaggiare tre attori che impersoneranno rispettivamente la Morte, il Tempo e l’Amore – le uniche categorie astratte che rappresentavano i tre pilastri filosofici per Howard prima della disgrazia – nella speranza che, nel dialogo serrato con loro, l’uomo possa trovare una ragione di vita.
Frankel e lo sceneggiatore Allan Loeb mirano molto in alto: trovare un senso – assolutamente laico, senza l’intromissione di nessun elemento religioso – al più grande interrogativo dell’uomo, la morte, prendendo come punto di riferimento tra l’altro la fine più ingiusta e crudele, quella di una bambina. Roba da far tremare le vene e i polsi ai grandi della letteratura, figurarsi a uno che, provenendo dalla commedia, tenta addirittura (non riuscendovi) di bilanciare il tono mortifero e melodrammatico della vicenda con qualche situazione più leggera. Il risultato è un film assai squilibrato dove le cose che non funzionano si susseguono senza soluzione di continuità: il cast di grandi nomi sbagliato e non a loro agio con ruoli mal scritti; un impianto narrativo che, per far tornare il colpo di scena sul finale, forza pesantemente la verosimiglianza nell’accostamento dei tre soci con i tre attori; lo stesso affronto del lutto, inadeguato nella formula riassuntiva (la bellezza collaterale del titolo è appena accennata e risulta una magra consolazione per una tragedia del genere). Rimane, oltre a un colpo di scena finale che almeno rimanda, dopo tante chiacchiere, alla concretezza di una compagnia umana, la portata disumana di una tragedia davanti a cui l’uomo anche brillante e intelligente come il protagonista rimane schiacciato e senza voce. Da questo punto di vista, proprio per la sua inadeguatezza di trovare il bandolo della matassa, di trovare insomma un senso al dolore che non sia una mera giustificazione psicologica, Collateral Beauty mostra, pur senza volerlo, l’inadeguatezza di una posizione non religiosa di fronte alla domanda della vita e della morte e del senso del nostro essere. Non c’è una risposta, non c’è un senso sembra balbettare senza però troppa convinzione Frankel: l’unica consolazione davanti all’Ineluttabile è farsi forza, stare vicini, cercare tutt’al più un dialogo immaginario con le tre grandi costanti della vita: la Morte (che non a caso nel film ha sempre l’ultima parola), il Tempo e l’Amore.
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