Regia di Frantisek Vlácil vedi scheda film
Presentato alla Mostra internazionale di Venezia, “Holubice” fu la pellicola scritta e diretta da František Vlácil, sulla base del racconto “Susanne” di Otakar Kirchner, che gli diede una certa rinomanza all’estero. Questa formidabile poesia figurativa traccia il legame mistico di due fanciulli nei confronti di un gracile piccione viaggiatore (una colomba bianca, emblema universale di pace): il praghese paraplegico Michal (Karel Smyczek) e un’adolescente tedesca (Katerina Irmanovová), disperata poiché il pennuto non fa più ritorno dopo un lungo tragitto attraverso il Mar Baltico. Il volatile infatti è stato accidentalmente sfregiato da un colpo di fucile ad aria compressa dal ragazzo sulla sedia a rotelle, e in seguito trovato casualmente e medicato (assieme allo stesso “responsabile” della ferita) dallo scultore Martin (Václav Irmanov); l'artista, notandone un’etichetta attaccata, intuisce il luogo d’origine della proprietaria. Il giovanissimo nuovo amico però non vuole separarsene. Il vis romantico, sognatore di Vlácil si libra armonizzando mondi paralleli che contrappongono rutilanti scenari irradiati dal sole con le composizioni anguste di un condominio cecoslovacco, riflesso allegorico della tendenza dello sfortunato personaggio principale ad estraniarsi dalla società esterna. Gli angoli di camera improntati ad una prospettiva verticale plasmano la percezione sensoriale dell’ambiente circostante, tessendo gradualmente l’etica bruciante dell’autore: il messaggio sottopelle di empatia e amicizia fra nazioni lontane prende forma nel desiderio di curare un essere vivente in condizioni fisiche compromesse. Le immagini elegiache si susseguono in perpetuo movimento su illustrazioni geometriche, le quali comunque non si sincronizzano mai organicamente. L'inquadratura cattura ed effonde istanti fugacemente idilliaci di una natura “eterea”, “indagatrice”, evidenziata nei suoi cenni metafisici (la teenager debolmente illuminata dal chiarore che scorre attraverso un sottile ombrello, le sabbie fulgenti, il riflusso d'acqua all’orizzonte, la proiezione delle onde stemperata dalla soggettiva di un bicchiere), consentendo all’espressionismo visivo dall’afflato neorealista di esibire stati d’animo separati ma speculari, trascendere la narrazione, e infondere alla stupefacente parvenza espositiva suggestioni dissonanti, composite, rinsaldate da un linguaggio soventemente laconico. Una vicenda dai chiari contorni umanistici, sorretta dalla cinematografia in un maliardo b/n di Jan Curik (da notare la prodigiosa pianificazione panoramica dei grigi marcati, così come i contrasti monocromatici risaltati dalla pioggia e il vento), il cui simbolismo riverbera tematiche quali l'interrelazione di individualità apparentemente divergenti, il desiderio di sopravvivenza, il riscatto, l'illusione di ciò che si brama e il miraggio di un futuro migliore. Nel ciclo dei fotogrammi non mancano passaggi conturbanti impreziositi dall’orchestra di Zdenek Liška, il quale riesce ad elevare ulteriormente la portata taumaturgica delle sequenze. Il parsimonioso cast, infine, si contraddistingue grazie alla fervente eloquenza nei primi piani degli attori non (ancora) professionisti Smyczek e Irmanovová: i loro sguardi perforano lo schermo implicando un’ampia pluralità di apprensioni che ne manifestano sofferenze e fragilità. Evitando di ricorrere a prevedibili tumulti di maniera, Irmanov rivela in ugual modo una pulsante partecipazione introspettiva, avvolgendoci in una storia splendidamente prosata e filmata.
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