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Riparare i viventi

Regia di Katell Quillévéré vedi scheda film

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La recensione su Riparare i viventi

di Spaggy
6 stelle

Il diciassettenne Simon parte di notte per andare a fare surf all’alba in compagnia di due amici. Al ritorno verso casa, però, il furgone su cui viaggiano ha un grave incidente che lascia Simon in coma cerebrale. Per i suoi genitori Marianne e Vincent si pone di fronte un nuovo dramma: che farne con gli organi del loro amato figlio? Donarli o no? A supportarli verso la scelta giusta è il dottor Thomas Rémige, esperto di trapianti e di psicologia umana. Mentre la coppia riflette sul da farsi, a centinaia di chilometri di distanza, Claire necessita di un cuore nuovo. Madre di due figli, ha una malattia degenerativa con cui fare i conti e un passato sentimentale non ancora del tutto risolto. Come tutti coloro che sono in attesa di un trapianto, deve vivere costantemente con il telefono in mano e aspettare, aspettare qualcuno che le salvi il futuro seppur non sia del tutto convinta dell’ipotesi di avere un cuore da un cadavere e tema l’intervento chirurgico. Lapalissianamente, le due storie si intrecciano nel più prevedibile dei modi, dopo che Claire ha cercato di fare almeno un po’ di chiarezza con la pianista Anne, la sua ultima importante relazione sentimentale finita già da tre anni.

Emmanuelle Seigner, Kool Shen, Gabin Verdet

Riparare i viventi (2016): Emmanuelle Seigner, Kool Shen, Gabin Verdet

La giovane regista francese Katell Quillévéré sceglie di adattare Riparare i viventi, romanzo di Maylis de Kerangal, attenendosi fedelmente alla storia e abbracciando un tema abbastanza spinoso. Le immagini vorrebbero spingere a riflettere sul doppio dramma che vivono i parenti di coloro che passano a miglior vita (la morte traumatica e la decisione sulla donazione degli organi) e sui dilemmi che affollano la mente del “vivente da riparare”. Se da un lato la messa in scena è impeccabile, lo stesso non può dirsi della psicologia dei personaggi, tratteggiati e mai approfonditi. La sceneggiatura prevede infatti la presenza di innumerevoli personaggi di contorto, a partire dalle equipe mediche che si occupano prima dell’incidente di Simon e poi del trapianto. Marianne e Vincent vengono dapprima accolti dal primario Pierre Révol, interpretato da Bouli Lanners, per poi imbattersi nell’infermiera Jeanne (con il volto di Monia Chokri) e passare poi al cospetto di Thomas Rémige, supportato da Tahar Rahim. Mentre Marianne e Vincent in pochissimi frame prendono la decisione più difficile della loro esistenza di genitori, la regista si perde nel tentativo di far affiorare qualcosa sui tre, finendo per divagare inutilmente dall’asse del racconto. Marianne e Vincent, una struggente Emmanuelle Seigner e un catatonico Kool Shen, sono lasciati da soli a fare la loro scelta, come se la telecamera per pudore di mostrare ulteriormente la loro sofferenza decidesse di allontanarsi e di deviare il percorso, come se mostrare gli altri viventi servisse a sottolineare come da riparare non sono solo coloro che soffrono di mali fisici.

Con uno stacco netto che fa sembrare le due storie due mediometraggi accorpati, la Quillévéré opta per il più classico dei montaggi: prima una storia, poi la seconda e infine l’epilogo che le intreccia. Se la prima parte non sembra volere approfondire lo stress dei genitori di Simon, la seconda non lascia il tempo alla protagonista Claire, una malinconica Anne Dorval, e ai suoi due figli di capire quali siano le conseguenze a cui un trapianto può farli andare incontro. Emotivamente Claire appare fragile e impaurita: la paura però sembra essere collegata al futuro dei figli più che al proprio. Le psicologie sia di lei sia dei due figli poco più che ventenni non hanno spessore e sono piatte come l’encefalogramma del povero Simon. Ancora una volta, la regista finisce per mettere in evidenza l’operato dei sanitari e, in particolar modo, di chi gestisce la destinazione degli organi e di chi si reca in loco a prelevare l’organo donato per portarlo al ricevente. Sembra quasi che del romanzo abbia tolto ogni orpello emotivo per riportare tutto sul piano della freddezza, dello sguardo oggettivo e della mancanza di empatia. La paura è che il tutto le sia sfuggito di mano, facendola propendere per un didascalico dramma medico in cui tutto è una cartella clinica asettica, in cui c’è solo del nero scritto su bianco e non c’è spazio per i colori. Eppure avrebbe avuto la stoffa per ricorrere a una tavolozza variopinta che la sequenza iniziale di surf lasciava speranzosamente presagire.

 

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