Regia di Katell Quillévéré vedi scheda film
Venezia 73 – Orizzonti.
Di Riparare i viventi si può dire tutto e il suo contrario. Propone tanto, ma in fondo lascia molto in disparte, adotta scelte altamente opinabili ma, nel bene e nel male, non si può in ogni caso dire che Katell Quillévéré si sia accontentata di fare un film per tutti.
Le sue scelte sono settarie più di quanto non sembri, richiede forse più di quanto non dia, ma se ci si ritrova incastrati nella sua traiettoria si rischia di rimanere incastonati in un magma paralizzante.
Dopo un’alba trascorsa a fare surf, Simon è vittima di un incidente stradale che lo porta in stato vegetativo; mentre i medici non possono fare altro che decretare la sua morte cerebrale, i suoi genitori sono avvolti dal dolore.
Nel frattempo, Claire (Anne Dorval) vede il suo cuore scricchiolare; la sua strada s’incrocia con quella di Simon, in uno stretto intervallo tra una presa di coscienza e una nuova speranza.
Impossibile cominciare meglio, visto che dalla massima manifestazione della libertà, una fuga notturna per surfare, si passa all’esatto opposto, con un’espressione di rara leggerezza che si fa preludio a una precoce virata, introdotta da un’idea di montaggio sublime che rappresenta poeticamente un passaggio basilare, un anfratto che da solo vale più di mille film.
Un salto triplo che porta a una conseguente composizione geometrica, calcolata al millimetro che raffredda asetticamente per poi lasciare il campo a improvvise aperture alle inevitabili conseguenze umane che la vicenda interpone.
Mentre un corpo, inteso come contenitore di anima e organi, abbandona lo spazio vitale, un altro può ricominciare a pensare al futuro con una nuova linfa, così che tra un dolore, troppo forte per lasciare spazio ad altro, e una speranza che si accende da un secondo all’altro, si crea uno spazio per un altro centro.
Praticamente diviso in tre atti – una morte precoce, una vita appesa a un filo e il passaggio del cuore, quel motore che non può mai fermarsi un attimo per fornire la vita – i gesti assumono una valenza di rara importanza; il rispetto fino all’ultimo atto verso un corpo ormai senza vita, il meticoloso procedimento che si cela dietro le operazioni mediche - descritto entrando in stanze fuori dal nostro comune campo visivo - quella sensazione di speranza che attende il battito regolare, segno di un passaggio di consegne.
Quando c’è metodo, con il freddo e il caldo si scontrano scatenando vortici da alta quota, nasce uno sconquasso che può portare, anche radicalmente, nelle direzioni più disparate.
Qui la contrapposizione tra il gesto chirurgico e la complessità dei sentimenti in atto crea una chimica personale, che annienta e rigenera, il fatto che ritroviamo il cast delle grande occasioni (Emmanuelle Seigner, Tahar Rahim, Bouli Lanners, Anne Dorval and many more…) messo alla mercé del soggetto, non fa che implementare il pensiero che conti il baricentro narrativo e che il resto non possa (debba) fare altro che ruotarvi attorno.
Poi è anche vero che c’è troppo contorno, che la sintesi diventa estrema, i possibili difetti rilevabili diventano tanti, ma è anche, o prima di tutto, un’opera che manifesta un modo diverso di intendere le cose.
Lucido ed estremamente rispettoso, Riparare i viventi offre un punto di vista divergente che può arrivare all’infinito (e oltre) o finire per essere ricordato come asettica espressione di stile.
Inutile aggiungere che propendo per la prima ipotesi.
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