Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
Gianni Amelio, con la sua proverbiale elegante dolcezza - discostandosi dal libro di Lorenzo (come il protagonista) Marone, facendone una propria e personale creatura - ci racconta di rapporti familiari e affettivi difficili, di sentimenti provati, dimenticati, lasciati, rovinati, messi da parte, ripresi.
In una Napoli bella e dolente, chiassosa e tradizionale, lontana dallo stereotipo fuorviante raccontato dalla camorra e dalla gomorra, si aggira un uomo silenzioso e scontroso che ad ogni passo pare voglia lasciare i ricordi e il passato dietro di sé. Ogni metro percorso non lascia un sassolino per ritrovare la strada, anzi se potesse costruirebbe un muro per non vedere più nulla se dovesse girarsi. Una Napoli fatta di stradine strette, palazzi antichi che ricordano tempi migliori, larghe scale salite miliardi di volte, ponteggi su sui non lavora alcun operaio, bambini che giocano a biliardino o a pallone.
Porte chiuse distrattamente con le chiavi all’interno, corridoi lunghi, sale disabitate con mobili impolverati. Ogni porta chiusa alle spalle è un coperchio che si vuole utilizzare impropriamente per chiudere con i ricordi di quello che si è vissuto, su vicende familiari che Lorenzo, un vecchio avvocato acciaccato da una salute claudicante, preferisce cancellare dalla mente. Ma se lui chiude col passato, un’altra porta chiusa, quella di una giovane signora coinquilina, gli apre un altro scenario di vita che lui accetta inizialmente malvolentieri perché non ama altri contatti umani in questo presente, ma la simpatia della bella Michela e la vivacità della sua famiglia, soprattutto quella dei suoi due bimbi hanno per lui un potere taumaturgico: quello di farlo avvicinare agli altri, quello di vivacizzare una vita opaca e monotona, quello miracoloso di farlo affezionare ai piccoli ed entrare in una famiglia estranea ben accetto, addirittura trattato come un nonno di casa.
Non è così semplice, però. Ogni personaggio di questa storia ha un carattere non facile e ognuno con i suoi problemi che si trascina da tempo. Eccezion fatta per l’esuberante e disponibile Michela, i figli dell’uomo, Elena e Saverio, e il marito di Michela, Fabio, trascinano sentimenti inesplosi ed emozioni represse, ricerca di sicurezze e retaggi familiari indesiderati. E tutto ciò Gianni Amelio lo espone con la sua solita pacatezza e senza eccessivi strappi emotivi: il film infatti è così lineare e quieto che anche i momenti di maggiore tensione vengono stemperati da una sceneggiatura e da una narrazione esemplarmente semplici e accorate, senza mai cadere nel tranello del didascalico. Sono personaggi che nonostante gli errori che hanno commesso o che hanno visto commettere dai loro familiari non hanno ancora imparato la lezione e vivono nel timore di accettarli e conviverci, per poi archiviarli e rimettersi in gioco nella vita. Michela (che brava che sta diventando sempre più Micaela Ramazzotti!!!) è la generosità e la disponibilità fatte persona: è l’unica che sa sorridere e che apre il cuore, anche quello degli altri; Elena (la dolcezza di Giovanna Mezzogiorno si rivela ideale per il regista) è ormai sfiduciata ma non smette di sperare nel riavvicinamento del padre a cui perdona tutto (“…perché un padre è un padre!”); Fabio (il solito fragile, irrequieto, implosivo Elio Germano) è il più tormentato di tutti, con un macigno nella mente e nell’anima che condiziona la sua esistenza, che gli causa improvvisi scatti irrazionali e che non sa come comportarsi con i suoi bambini: li ama ma non è capace di trasmettere loro l’affetto necessario.
Renato Carpentieri: finalmente un ruolo da protagonista! Finalmente l’occasione per mostrare tutta la sua bravura. E se i trailers, gli articoli, le interviste mostrano e parlano di tutto il cast, sarebbe un grave errore non far risaltare che tutta la storia gira intorno a questo personaggio così complesso e sotto certi aspetti perfino misterioso, dal passato non perfettamente chiaro, una moglie abbandonata, l’amante dimenticata, due figli messi da parte, un’attività da legale con molte zone d’ombra. “Avvocato e persona per bene non sono due termini che stanno bene insieme” dice un suo ex collaboratore. Il suo Lorenzo è il buco nero di questa piccola galassia, il punto di riferimento della storia e il polo di attrazione degli altri personaggi e dello stesso spettatore: fin quando non si comprenderà bene il suo cruccio, che è anche il suo passato, non sarà possibile conoscerlo e comprendere il suo atteggiamento refrattario. Quel passato di cui è rimasta solo una targhetta dorata che era esposta una volta sulla porta del suo studio legale, che la figlia Elena ritrova impolverata e la rigira tra le mani come una prova della felicità vissuta: citazione da cinefilo - quale è Gianni Amelio - da lui stesso ammessa, di un meraviglioso film dell’inimitabile Douglas Sirk, Come le foglie al vento, sequenza in cui Marylee (Dorothy Malone) maneggia con nostalgia un modellino di pozzo di petrolio seduta ad una scrivania simile a quella del Lorenzo avvocato di un tempo. E volendo l’immagine si duplica allorquando, in un negozio di cianfrusaglie e oggetti usati, il nebuloso Fabio trova per caso un suo vecchio giocattolo di quand’era bambino, un’autobotte dei pompieri, facendogli ritornare in mente sensazioni lontane nel tempo e propone all’indolente commerciante di acquistarlo a qualsiasi cifra, pur di riaverlo. Cosa c’è nel suo passato che lo spinge ancora a giocare come un bambino anche con un aereo radiocomandato mentre invece il suo piccolo usa strumenti informatici?
In questa bellissima e indolente Napoli, incorniciata dalla esaltante fotografia di Luca Bigazzi e accompagnata dalle perfette e adatte musiche arabeggianti di Franco Piersanti, l’insegnamento giunge dalle stupende parole che pronuncia la stessa Elena di Giovanna Mezzogiorno. Dice infatti il poeta arabo che la felicità non è una meta da raggiungere ma è una casa a cui tornare. Non andare, ma tornare. Dietro, non avanti. Questo è il grido di speranza che lancia il film, ma sempre sottovoce.
Gianni Amelio, con la sua proverbiale elegante dolcezza - discostandosi dal libro di Lorenzo (come il protagonista) Marone, facendone una propria e personale creatura - ci racconta di rapporti familiari e affettivi difficili, di sentimenti provati, dimenticati, lasciati, rovinati, messi da parte, ripresi. Su tutti la figura del padre, figura che rimane stagliata nella sequenza finale, quella in cui la riappacificazione è una mano che si poggia sulla quella della figlia, perché lui finalmente torna appunto a casa. Finalmente si è girato indietro. Film di sofferenza raccontato con la leggerezza tipica dell’autore, capace di toccare il cuore facendo parlare gli sguardi, i piccoli gesti, gli sbuffi, i vicoli strettissimi di Napoli. Attori bravissimi e ispirati, diretti da un maestro del cinema contemporaneo che ci offre un altro gioiello della sua visione di vita e di umanità. Con tenerezza, come ama lui, oltre la tragedia. Come un lenitivo. Perché quella mano posata nel finale è semplicemente un lampo di speranza e di tenerezza ritrovata.
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