Chiunque ritenga che il cinema sia diverso dalla letteratura filmata non potrà non apprezzare l'ultimo lavoro di Gianni Amelio. Il regista calabrese per il suo nuovo film è partito infatti da una fonte letta e apprezzata da centinaia di lettori - il bestseller "La tentazione di essere felici" del romanziere napoletano Lorenzo Marone - per arrivare a qualcosa di nuovo e completamente diverso. In realtà se confrontiamo il libro con il romanzo qualche punto in comune ancora c'è ma nelle sostanza la riscrittura operata sul testo originario ha reso le caratteristiche iniziali così annacquate da far sembrare "La tenerezza" un opera senza altri natali che quelli datigli dal nostro autore. Il quale, per il suo tredicesimo film decide di mettere in scena un'altra vicenda di assenze famigliari e, in particolare, di figure paterne costrette a fare i conti con le responsabilità da cui a suo tempo si sono sottratte. Motivi, che in un film di Amelio si traducono in una drammaturgia emotivamente carica di struggente malinconia e di pulsioni ancestrali che spingono i personaggi (padri o figli che siano) a mettersi in viaggio - letteralmente ("Ladro di Bambini" e "Lamerica") o in senso metaforico - alla ricerca della parte mancante.
Ne "La tenerezza" a essere protagonista è Lorenzo (un grande Renato Carpentieri) avvocato in pensione che vive da misantropo in una magione rifugio nel cuore di Napoli (restituita con puntuale dovizia dalla fotografia di Luca Bigazzi) e il cui interesse nei confronti dell'esistenza è risvegliato dall'arrivo di Michela (Micaela Ramazzotti), l'esuberante vicina di casa, la quale, con la complicità del marito e dei suoi due bambini lo coinvolgono all'interno di un quotidiano che fa riaffiorare nell'uomo una tenerezza da sempre negata a Elena (Giovanna Mezzogiorno, restituita al cinema che conta) e Saverio, i figli dei quali Lorenzo rifiuta ogni tentativo di riavvicinamento.
Se la svolta narrativa de "La tenerezza" - sulla falsariga dello schema adottato dal libro di Marone - è data dal fatto di sangue che sconvolge le vite dei protagonisti, costringendoli in un modo o nell'altro a uscire fuori dal senso di inadeguatezza (di essere padri così come di essere figli) che nel film di Amelio è tratto comune a tutti i personaggi, bisogna riconoscere al regista la capacità di saper arrivare a quel momento con una coerenza che deriva non solo dal clima di sospensione che grava sulle vite dei personaggi, ognuno dei quali sembra essere sul punto di un cambiamento continuamente rimandato, con ciò che ne consegue in termini di ansia e di aspettative da parte degli interessati, ma anche dai piccoli segnali di cui Amelio riempie lo schermo, come a presagire il luttuoso evento: a cominciare dall'incerta identità e dalla possibile minaccia dell'extra comunitario (vittima o carnefice degli sbarchi clandestini non è dato di sapere) di cui Elena deve tradurre la deposizione in tribunale; per non dire dell'improvviso scoppio d'ira di Fabio (Elio Germano), il quale, per futili motivi si scaglia contro un venditore ambulante, interrompendo il quadro di armonia domestica che regnava un attimo prima. Ciò che convince di meno però è la resa drammaturgia nel suo complesso, che, prosciugata del pathos presente nei suoi film più importanti e qui sostituito da un'atmosfera di raggelata solitudine esistenziale, impedisce al film di arrivare allo spettatore con la visceralità che riconosciamo al cinema di Amelio. In questo modo a momenti di grande empatia, molti dei quali riguardano le sequenze in cui Carpentieri e la Ramazzotti occupano contemporaneamente la scena, ne succedono altri il cui senso all'interno del contesto appare più meccanico e dove Amelio nel ricostruire uno dei luoghi più tipici della sua filmografia non ritrova la forza dei tempi migliori; e ci riferiamo per esempio alla scoperta dell'altro intesa come confronto tra culture che qui appare più un espediente narrativo per arrivare alla conclusione (ci riferiamo alla scena che anticipa la fine in cui Lorenzo ed Elena si ritrovano insieme in tribunale) che il modo per riflettere su una delle questioni più calde della nostra contemporaneità. Tutto ciò, senza nulla togliere ai meriti del film che per cast e compartimento tecnico (Luca Bigazzi direttore della fotografia, Maurizio Millenotti responsabile dei costumi, Alessandro Zanon del suono e Franco Piersanti delle musiche) raduna in un colpo solo il meglio di cui un regista possa disporre. Anche per questo si poteva sperare in qualche cosa di più.
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