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Dogs

Regia di Bogdan Mirica vedi scheda film

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La recensione su Dogs

di supadany
8 stelle

Tff 34 – Torino Film Lab.

«Dove non c’è nessuno, si può fare quello che si vuole».

«Ho paura di Dio ma anche lui ne ha di me».

Caini è un’opera tagliente e senza sconti che lascia il segno, riprendendo gli stilemi del cinema noir per ricollocarli in Romania, attualizzandoli ai cardini ambientali e alle condizioni umane.

Bogdan Mirica, grazie a uno stile asciutto, bada all’essenzialità, facendo balzare all’occhio una cifra stilistica eloquente, cristallizzata nei tempi, luoghi e personaggi.

Roman (Dragos Bucur) ha ereditato dal nonno una proprietà al confine tra Romania e Ucraina e si reca sul posto per valutare la situazione, arrivando presto a scoprire che il terreno è al centro di traffici malavitosi.

Dovendo scegliere come comportarsi, non opta per la via più facile; spalleggiato da un commissario (Gheorghe Visu) sul viale del tramonto, che non ha più nulla da perdere, affronterà Samir (Vlad Ivanov), impersonificazione del male in carne e ossa.

 

Gheorghe Visu

Dogs (2016): Gheorghe Visu

 

Entrare in contatto con una realtà sconosciuta presenta dei rischi; occorre capire rapidamente i suoi equilibri, soprattutto se s’intuisce che l’illegalità ha le mani dappertutto. A questo punto, bisogna scegliere da che parte stare e assumersi le proprie responsabilità di uomo può mettere tutto in discussione, comportando un rischio estremo. Fortunatamente, c’è ancora qualcuno che non accetta tacitamente un mondo alla rovescia.

Raramente capita di assistere a un’opera prima così compatta, messa in quadro senza alcuna sbavatura da Bogdan Mirica che applica alla lettera una serie di regole che rendono Caini un noir puro e disperato.

La formula è abbastanza semplice: tre personaggi paradigmatici – un giovane elemento estraneo, un poliziotto con i giorni contati e un criminale senza alcuna pietà – un paesaggio esemplare nel quale prende corpo tutta l’azione e tempi d’azione riflessivi o, se preferite, semplicemente diradati.

Tutti gli elementi sono quindi collocati al posto giusto, con il respiro garantito da un destino non raggirabile, una natura svuotata - con la terra privata della sua funzione primaria di generare i frutti ma utile per perpetrare i peggiori degli affari - e da caratteri messi in conflitto, così come avviene spontaneamente tra la tensione notturna e quella alla luce del sole, entrambe suggellate senza cedimenti.

Una descrizione crepuscolare che trova anche spazi metrici allucinanti, come per una scrupolosa vivisezione di un piede, taglia improvvise battute acute e sceglie di tenere fuori campo eventi cui pochi autori avrebbero rinunciato, per poi esplodere nell’unico epilogo possibile.

Caini diventa così una pregevole sorpresa - o meglio, che lo sia lo s’intuisce precocemente - dall’andamento contemplativo, con spigoli tutt’altro che smussati, issati nel mezzo del nulla (territoriale e umano), laddove il malaffare è talmente radicato da essere considerato come normalità e l’elemento estraneo, il forestiero, diventa fattore scatenante.

Tra noir e western, sangue e giustizia, paesaggio rurale e anima, senza che un pezzo vada fuori posto. 

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