Regia di Nicole Garcia vedi scheda film
Credo sia impossibile afferrare i pregi di questo film se non lasciandosi assorbire quanto più passivamente possibile dalla protagonista Gabrielle (una Marion Cotillard, se possibile, ancora più strepitosa del solito). E’ un esercizio non facile (piccola spia di ciò: la scarsa considerazione attribuita al film dalla valutazione media degli amici di FilmTV...), perché la “pietra” del titolo non è soltanto nei calcoli renali che affliggono Gabrielle, ma è anche la materia (notoriamente poco assorbente) che ne costituisce principalmente il carattere.
Gabrielle soffre (e somatizza) di mal d’amore, a partire da quello fattole mancare dai genitori (un padre pressoché inesistente, una madre arida e presenzialista oltre misura che bada soltanto a salvare le apparenze), poi un bel professorino che la rifiuta proprio quando i suoi istinti più preistorici incontrano la prima fioritura. Nella profumata azienda di famiglia che coltiva lavanda, Gabrielle ha solo una sorella minore con cui potersi relazionare con una certa serenità, ma il legame con questa non è sufficientemente forte. E dunque l’esasperata solitudine selvaggia della nostra, circondata per il resto da un nugolo di lavoranti poco inclini al dialogo e molto alle vie di fatto, finisce per disegnare attorno a Gabrielle i tratti di una pazzia latente, a conferirle le caratteristiche di un soggetto “border-line” del quale finanche le dolorosissime coliche renali potrebbero venir prese per i semplici capricci di una ribelle.
Un matrimonio combinato e privo di amore in entrambe le direzioni, cui Gabrielle non si sottrae solo per via delle ancor più inaccettabili ritorsioni minacciate da sua madre in caso di rifiuto,, e la vita della protagonista svolta verso una vita “normale”. Ma la “pietra” che vive dentro di lei, la sua inusitata caparbietà, la solidità incrollabile e inattaccabile con cui Gabrielle persegue ogni suo disperato desiderio ed intento, porterà lei (e con lei la storia del film) ad una nuova svolta incontrando l’ombroso e sofferente tenente Andrè nell’istituto svizzero ove si reca per curare la sua patologia.
Quella che, in seguito, ad un occhio distratto e pigro potrà sembrare una capriola esagerata della narrazione (impossibile parlarne senza spoilerare, non dimenticando peraltro che il film è tratto da un romanzo di Milena Agus alla quale, eventualmente, andrebbero ascritte le responsabilità di tanto ardire narrativo) altro non è che la concretizzazione, la materializzazione visibile, il disvelamento e infine l’espulsione della “pietra” dal corpo fisico e psichico di Gabrielle. Alla regista Nicole Garcia, piuttosto, andrebbe attribuito il merito di una non facile (suppongo) trasposizione per immagini di questa niente affatto semplice vicenda, regista che, pur percorrendo sempre i binari di un raccontare realistico e ordinato, sarà capace di stupire lo spettatore al momento giusto e nel modo migliore, fino a giungere ad un finale assai toccante e appena pennellato con grande tatto, dove Gabrielle troverà l’ultimo, definitivo bivio, l’estuario in cui la sua “pietra” potrà finalmente rotolare via libera nel mare della sua tormentata esistenza.
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