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The Beatles - Eight Days a Week

Regia di Ron Howard vedi scheda film

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La recensione su The Beatles - Eight Days a Week

di yume
8 stelle

“Perché Dio non mi ha creato Elvis?”, “Perché ti ha destinato ad essere John Lennon” gli aveva risposto quella stupenda, squinternata madre persa troppo presto. E fu così che cominciò una delle poche storie davvero belle del XX secolo.

scena

The Beatles - Eight Days a Week (2016): scena

 

La storia era cominciata ventidue anni prima, anno più anno meno.

Era l’ottobre del ‘40 quando nacque John, al Maternity Hospital di Liverpool. Neanche un anno e, stesso ospedale dove la madre era infermiera, nasceva Paul. Tre anni dopo arrivò George mentre Ringo, il più vecchio, era già lì dal 7 luglio del ’40.

Quartiere operaio, raid aerei nazisti come base sonora, "e come potevamo noi cantare" non restava che dire.

Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese” ecc. ecc.

Forse questo spiega tante cose, in quelle incubatrici maturò l’urlo, la rivolta contro il buio, il bisogno di luce, di esplosione, di rock.

Da una costa all’altra dell’Atlantico.

 

E mentre l’urlo di Ginsberg, dalla Six Gallery di San Francisco ai club di jazz di New York, fu “ una enorme, triste commedia di fraseggi selvaggi, di immagini senza significato per la bellezza di poesia astratta ininterrotta che creavano combinazioni maldestre come il procedere di Charlie Chaplin, lunghi versi come ritornelli al sassofono di cui sapevo che Kerouac avrebbe sentito il suono”, in Europa quattro amici mattacchioni, i favolosi quattro ragazzi con tanta voglia di ridere e tanta musica dentro, tra Liverpool ed Amburgo riuscirono in qualcosa che ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, stupisce e commuove.

Quattro anni, 1962-1966, esplosione del fenomeno, incontenibile, inarrestabile, indescrivibile.

 

scena

The Beatles - Eight Days a Week (2016): scena

 

Quindi stop, la vita continua, si trasforma giorno per giorno, le grandi epifanie appunto sono grandi perché durano un istante.

Ma lasciano il segno per sempre.

Ron Howard ci ha detto tutto questo in un bel, lungo documentario che ha molto di diverso dalle solite ricostruzioni agiografiche, dalle solite analisi filologicamente corrette, dalle solite tiritere che dopo mezz’ora cambi canale (o esci dal cinema).

The Beatles - Eight Days a Week è un ricordo, un vecchio album che si sfoglia senza pensare quanto tempo è passato, si ride e spunta qua e là anche la lacrimuccia, ci si guarda allo specchio e si pensa a come eravamo, a quelle facce scalmanate sugli spalti dello Shea Stadium di New York, a quei buffi kimono indossati alla meglio dai quattro amici a Tokyo (solo in Giappone, manco a dirlo, ebbero un pubblico silenzioso e composto!), a quelle mamme al seguito che distribuivano fazzoletti in giro alle figlie in deliquio.

Ai grossi policemen americani sorridenti, allora!, alle prese con masse che spingevano e sulle spalle qualche fanciullina svenuta per l’emozione da rianimare.

Il mondo uscì dai cardini, certo, ma una volta tanto per urlare di gioia.

Anche se in giro si sparava, si moriva ancora, assurdamente, ed essere neri era ancora un problema, e in Vietnam si cadeva a mazzi.

Howard eccelle in una cosa, la coerenza.

Il suo documentario parla dei Beatles e del loro pubblico. E’ compatto, si mantiene intorno all’osso, non vuol raccontare la storia dell’universo mondo.

Eppure riesce a raccontarla. Dentro c’è tutto e il filtro sono loro, che di quegli anni sessanta furono il fenomeno per eccellenza, apparizione, epifania, qualcosa che arrivò dal nulla perché doveva arrivare, inutile chiedersi come e perché, hanno scritto enciclopedie per questo.

Ma basta vedere questo montaggio spesso inedito di pezzi, amatoriali e non, foto, canzoni che hanno fatto il giro del mondo e basta la prima nota, le sappiamo tutti, e capiamo perché sono stati così favolosi.

Howard riesce a dirlo, o meglio, riesce a farlo dire a loro. Con rispetto, con allegria.

Il cemento fu l’amicizia, essere quattro teste in un corpo solo, essere solidali in ogni momento.

E quando questo sodalizio, inevitabilmente, finì, avere la coerenza e la serietà per capirlo e trarne le conseguenze.

Su quel tetto della  Apple, in quel meraviglioso, ultimo live, ognuno vestito a modo suo, nel vento freddo che sollevava i capelli lunghi e disordinati e  Don't Let Me Down …

 

Perché Dio non mi ha creato Elvis?”, “Perché ti ha destinato ad essere John Lennon” gli aveva risposto quella stupenda, squinternata madre persa troppo presto.

E fu così che cominciò una delle poche storie davvero belle del XX secolo.

 

 

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