Regia di Kai Wessel vedi scheda film
Una storia vera, un ragazzo di quattordici anni con il coraggio che non ebbero gli uomini del suo tempo, Ernst Lossa, Jenisch, tedesco bavarese, ucciso nel '39 nella clinica psichiatrica di Kaufbeuren con due iniezioni letali.
Che la storia del Nazismo e della Shoah abbia ancora tante pagine strappate o non ancora scritte è cosa che non dovrebbe stupire nessuno, settanta anni non sono molti e il tempo tesse lentamente le sue tele.
Le guerre raccontano storie infinite di vincitori e vinti, e i bambini sono sempre perdenti, da qualunque parte si trovino la loro è una storia accessoria, evocata, quando accade, più per quell’istintivo, genitoriale trasporto verso i cuccioli di una specie che per un’autentica considerazione della loro sofferenza.
Ci sono però eccezioni, e allora chi non ricorda il ragazzo Florya di Va’ e vedi di Klimov, 1943 in Bielorussia, invasa dai Tedeschi ora in ritirata dal fronte russo, o il quattordicenne Hans e i suoi piccoli compagni di sventura di Wolfskinder di Rick Ostermann, i bambini–lupo, orfani di genitori tedeschi uccisi dall’Armata Rossa, in fuga senza meta nè speranza fra i boschi e le paludi della Prussia orientale respinti da tutti?
Ebrei, tedeschi, russi, ucraini, accomunati dalla loro extra-territorialità, il bambino è cittadino del mondo, quando va bene, ma può essere anche pulviscolo sulla schiuma della storia.
Storie di soprusi da un lato e di impotenza immedicabile dall’altra, la vile alterigia del male contro l’innocente fiducia nel bene.
La storia (vera) di Ernst Lossa, un ragazzino di 14 anni, Jenisch, tedesco bavarese, morto nella clinica psichiatrica di Kaufbeuren di broncopolmonite, secondo la cartella medica, ucciso in realtà da due iniezioni letali nell’ambito del programma di eutanasia attuato fin dal ’33 dal governo del Terzo Reich con la legge sulla “Salvaguardia della salute ereditaria del popolo tedesco”, il famigerato Aktion T4, è la scelta che fa Kai Wessel focalizzando una storia solo all’ apparenza minore.
Arrivato in clinica dal riformatorio che l’aveva bollato come asociale, ladro e bugiardo, Ernst capisce subito che non è il manicomio il posto che gli compete.
Lucido, intelligente, capace di grande altruismo e ribelle quanto basta per non soccombere subito, è un piccolo grande uomo che giganteggia in quel misero mondo di criminali dalla faccia d’angelo (il primario, benevolo e untuoso, l’infermiera dagli occhi di cerbiatta che gira con tazze di lampone e barbiturici) e un infelice popolo di disabili, minorati psichici e malati cronici che il Reich deve eliminare.
L'istituzione di centottanta corti genetiche ad hoc, la sottrazione di minori alle famiglie col pretesto di assistenza e cure in sei centri pseudo-ospedalieri, la somministrazione di barbiturici o diete omicide prepararono l’Aktion Reinhard,la Soluzione Finale, decisa nel giro di un’ora dalla Conferenza di Wannsee.
Il meccanismo era ormai perfettamente oliato. Ancor prima che arrivasse il dottor Mengele a privilegiare malati di mente e disabili per i suoi esperimenti, fu chiaro al regime quanto facilmente potesse contare sulla collaborazione di medici, infermieri, psichiatri, mentre le famiglie, alleviate del peso di congiunti disabili, non facevano troppe domande.
La macchina del terrore si autorigenera, come ben si sa.
Il padre di Ernst, ambulante senza fissa dimora, era però diverso, come il figlio.
Avrebbe voluto portarlo via da lì per andarsene in America, dove Ernst si prefigurava, con tutta la forza che hanno i ragazzi a quell’età di credere alle loro fantasie, un futuro da sceriffo.
Ma il pover’uomo, ignorante e impacciato, si ritrovò quasi a balbettare di fronte al primario colto, azzimato e imbonitore, così a Ernst toccò aspettare che lui risolvesse problemi burocratici che immaginiamo insolubili già in partenza.
Nell’attesa si compì il suo destino.
Un film disperato, che scivola con riprese attonite fra corridoi e grigi dormitori, assiste schiacciato dall’angoscia alla morte ora dell’uno ora dell’altro, mentre lisce bare di pino bianco sfilano nel cortile dell’altero palazzo bavarese, ascolta incredulo le vuote parole del cardinale che promette a sorella Louise che “sì… ma…certo sorella cara… riferiremo al Santo Padre… lui è consapevole, ci guarda da lontano… non mancherà la sua preghiera…” .
Eppure Ernst lo avvertiamo come una creatura forte, destinata a vivere, ci costringiamo a credere che ce la farà, come i suoi piccoli protetti, la dolcissima Amelie che mangia solo se l’imbocca lui o la biondissima Nandl, il suo giovane amore.
C’è qualcosa in questo film che ricorda i contrasti netti di Zéro de conduite di Vigo, uomini di potere, ombre minacciose contro le solari battaglie dei cuscini dei piccoli ribelli.
Volo di piume là, volo di pesci maleodoranti verso il soffitto qua.
E se qui non c’è un tetto su cui arrampicarsi per correre verso il cielo, se dentro e fuori quelle mura c’è qualcosa che Caussat, Colin, Briel e Tabart, i quattro zero in condotta di Vigo, non avrebbero mai immaginato, c’è però un buco nella stanza da cui, di notte, Ernst può passare per andare sul bastione a guardare la luna.
Prima di gridare “assassino” al primario psichiatra della clinica.
http://www.paoladigiuseppe.it/
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta