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Ritorno in Borgogna

Regia di Cédric Klapisch vedi scheda film

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La recensione su Ritorno in Borgogna

di alan smithee
4 stelle

“Sono cose di famiglia”… che tornano a farsi sentire come ferite lancinanti non curate a dovere né in maniera appropriata, specie quando affrontate, come nel caso che qui ci occupa, con una semplice fuga altrove.

Jean è il figliol prodigo che torna dall’Australia dopo oltre quattro anni dall’ultimo contatto con i propri cari: la notizia dell’aggravamento delle condizioni di salute del padre induce il maggiore dei tre figli del malato a tornare al podere in Borgogna, ove si consuma da generazioni la tradizione della coltura della vigna. Lo aspettano una sorella benevola, ed un fratello minore che ha appena messo su famiglia, e che non cela nemmeno troppo il proprio disappunto – in un certo senso giustificato – nei confronti del fratello fuggiasco, per il suo comportamento superficiale ed incurante degli affetti altrui.

Sarà l’imminenza pratica di un suo coinvolgimento nella fase ormai avviata della produzione vinicola, a riaccendere nel giovane il senso di appartenenza ad un territorio e ad un popolo che lo stesso riteneva ormai irrimediabilmente perduto da tempo. L’esperienza maturata nel medesimo campo in terra australe, lo indurrà a confrontarsi con successo nella soluzione di problematiche tecniche e non solo, riuscendo in qualche modo a domare dissidi familiari in un primo tempo giudicati insanabili.

Cédric Klapisch, il regista de L’appartamento spagnolo (film di successo sui ragazzi dell’Erasmus, ma anche molto sopravvalutato, che ha generato anche due seguiti non proprio esaltanti) torna con un film incentrato sui valori della famiglia e sulle tradizioni del proprio territorio natio.

Una sorta di parabola insomma, in grado di sviscerare un epicentro di sentimenti mal espressi nel tempo, ed in grado di alimentare fraintendimenti ed incomprensioni che solo il potere della terra ed il senso di appartenenza alle proprie origini saprà curare.

Non un granché, se proprio vogliamo dire, nonostante la lussureggiante presenza di una ambientazione locale che, per fortuna, pur addentrandosi nella tradizione, non si svilisce troppo in ruffiane riprese di scorci agresti falsati (del tipo de Un’ottima annata, clamoroso passo falso di Ridley Scott); come non particolarmente ispirata ci appare l’interpretazione del giovane, ma ormai noto, Pio Marmai, mentre Ana, la figlia di Hippolyte Girardot, è di una bellezza così trascinante da abbagliare e non far pensare ad altro che alla sua presenza.

Mediocre pure il doppiaggio italiano, forzato e incespicante, davvero poco convincente.

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