Regia di Anne Hamilton vedi scheda film
A Doggy Dog Life.
"Quella fu una bella estate […] : la banca mi concesse il prestito senza problemi e io lo ripagai tutto prima di ottobre, perché quell'anno il prezzo del mais era alle stelle e le tariffe merci della ferrovia ai minimi storici. Se avete buona memoria, ricorderete che quelle due cose - il prezzo del prodotto e il costo del trasporto - nel '23 si scambiarono di posto, e da allora nulla è più cambiato."
Stephen King - “1922” (in “Full Dark, No Star”) - 2010 (ed. ital. S&K, trad. Wu Ming 1)
Wisconsin, U.S.A (middle-west del nord, lontano quel che basta tanto dalla bible quanto dalla rust belt), primi anni '80 del XX° secolo.
Il sistema bancario [il far soldi coi soldi (degli altri)], il vecchio neoliberismo reaganiano (che se non è di tutti, quasi), la progressiva, sottosviluppata colonizzazione del territorio da parte dei sistemi di coltivazione estensivi, tutti questi “fattori in campo”, riuniti, stanno mietendo, estirpando, stritolando, spremendo le piccole e medie aziende agricole famigliari. Il bush si sta riprendendo il terreno non più arato. Occorre, per sopravvivere, rispondere con la stessa moneta, fare lo stesso gioco dei padroni: solo che per la upper class quelle regole si chiamano legge, per la working class [i figli (orfani) del granturco] quell'agire prende il nome di delinquenza.
La dodicenne Gitty (Peyton Kennedy, a tratti - prescindendo da regia e montaggio - strepitosa) cresce con la famiglia [padre (Kip Pardue), madre (Marci Miller) e fratello maggiore (Gavin MacIntosh)] in questo ex paradiso terrestre vivendoci il proprio coming of age.
Non v'è un altrove, un rifugio, un Oz, per lei. Solo la propria casa. E quindi l'andarsene, il lasciarla: vedere il mondo, crescere, viaggiare, misurarne l'orizzonte passo dopo passo, a tempo debito, in credito di una manciata di sogni.
Ogni favola contiene un inganno, e una rivelazione.
Dal perturbante (inconsapevolmente non identificato come tale, certo, m'ad ogni modo fertilmente in azione) all'epifania.
Le coincidenze contribuiscono, vestendosi di mistero per sopperire alla nuda verità, ad intesserne la trama, progredendola verso decisioni da prendere. L'immaginazione sopperisce alla debolezza intrinseca del ruolo protagonista, consentendo un'elaborazione dei fatti concreti sotto forma allegorica.
"American Fable", opera prima nel lungometraggio, dopo un paio di corti, di Anne Hamilton, che negli anni '80 c'è nata, cresciuta e vissuta, è un film - fotografato da Wyatt Garfield ("Mediterranea" di Jonas Carpignano) - integro, limpido, tenero, sincero, chiaro, feroce, ma non (troppo) retorico. Anche le inequivocabili ingenuità [di svolte della trama (il galletto Happy parente stretto del cagnetto PierUgo di fantozziana memoria e dell'ipotetico/fantomatico spezzatino di canconiglio di "the War of the Roses") e di messa in scena (un, ad ogni modo riuscito, effetto notte)] non disturbano (troppo-bis).
"Ricorda, Gitty: questo è il più bel posto del mondo. Lo sai, vero?"
Non deve essere riduttivo o, peggio, offensivo, rilevare delle assonanze-risonanze e delle derivazioni-associazioni col cinema del recente e/o lontano passato (ma nemmeno è obbligatorio cercarne a tutti i costi), quando si tratta di "inquadrare" un'opera (prima).
Il titolo che subito assurge dal crogiuolo degli archetipi conficcandos'in mente mentre si assiste alla pellicola è "troppo", è enorme, è sproporzionato, ma è giusto, corretto, appropriato: "el Espíritu de la Colmena" (lo Spirito dell'Alveare) di Victor Erice [con un duplice, parallelo ribaltamento di fronte interno: la "Bestia" rifugiata non è un repubblicano del Fronte Popolare ma un medio capitalista di una corporation/multinazionale (Richard Schiff), e a combattere il male là fuori vi sono dei volenterosi uomini grigi (Zuleikha Robinson), gatti e volpi mossi all'azione dal tornaconto personale e deputati a tal ruolo perché la società è silente, lontana, lo sguardo stornato, e altrove, voltata dall'altra parte]. Paragoni molto più facili, "vicini e diretti" si possono fare con il dittico di Guillermo del Toro composto da "el Espinazo del Diablo" e "el Laberinto del Fauno" e con "Io Non Ho Paura" di G.Salvatores, ma anche in questo caso sarebbe saggio spingersi "un po' più in là", chiamando in causa (senz'alcuna certezza d'improbabili influenza dirette) altre opere: primariamente l'uno-due che comprende "Corpo Celeste" (altra opera prima) e "le Meraviglie" di A.Rohrwacher, e "TideLand" di Terry Gilliam: queste sono opere che contengono, esprimono ed evocano convergenze, "ripercussioni" e affinità pertinentissime ed evidenti. Poi, più trasversalmente/collateralmente: "Days of Heaven" di T.Malick (come "capostipite", al pari del film di Erice), e, a seguire, di tutto un po': da "George Washington", "UnderTow" e "Joe"di David Gordon Green (e "quindi" anche "Mud" di Jeff Nichols) a "Beasts of the Southern Wild" di Benh Zeitlin, passando per un'altra "doppietta" ancora, quella costituita da "Stop the Pounding Heart" e "Low Tide" di Roberto Minervini, giungendo infine, proprio sul confine, a "the Woman" di Lucky McKee (da Jack Ketchum) e "Winter's Bone” di Debra Granik (da Daniel Woodrell).
Ovviamente, poi, il "terroir" è quello di Stephen King ("the Girl who Loved Tom Gordon"), con sconfinamenti verso Jonathan Lethem ("Girl in LandScape").
Terminando dal principio: la reazione è immediata, il mantello pomellato lo identifica come un cerbiatto, un cucciolo di daino o cervo, e l'istinto di protezione subentra. Comportamenti epigenetici, un resiliente/resistente senso morale: le sue spoglie. Il leone si mangerà sempre il topo, lo scorpione pungerà sempre la rana. Gitty vive la propria favola e riscrive la propria storia. All'accorto e smaliziato spettatore è riservata la percezione dell'inquietudine della giovane protagonista, alla protagonista è connaturata l'indole congenita coalescente alla realtà dello spettatore. Che il film finisca quasi “come” l'Alice in WonderLand di Tim Burton/Linda Woolverton è un segno dei tempi. Non dei peggiori.
A Doggy Dog Life.
* * * ½ (¾) - 7 (½)
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