Regia di Caroline Deruas-Garrel vedi scheda film
L'Arte: c'è chi ci crede ancora. Inutilmente.
Indomita, stando al titolo originale. Un aggettivo riferito ad un personaggio femminile del passato, misterioso e forse inesistente, in perfetto equilibrio tra il banale e l’eccentrico, tra l’anonimato e l’ostentazione. Agli inizi del Novecento, una giovane scultrice varca – prima donna nella storia – le soglie di villa Medici, a Roma, sede italiana dell’Académie de France. Il suo mito è rimasto imprigionato in quel luogo, insieme alle statue dalle pose inquiete, sparse nel giardino, frammiste ai fantasmi di imperatrici, assassini, amanti clandestini: tutte ombre dimenticate, di cui si è perso il senso, come in una immagine ermetica dal gusto vagamente rétro. Gli ospiti di oggi – scrittori, musicisti, una fotografa, vincitori di una borsa di studio annuale – inseguono il sogno di una gloria scaturita dal genio, dalla creazione del mai visto e mai sentito, dal parto elitario dell’unicità. La realtà, dal canto suo, si tira un po’ in disparte, assorta anche lei nell’isolamento contemplativo che parte dal vuoto, da un parco deserto, da una pagina bianca, da un barlume di fascino senza capo né coda. Intanto la chimera dell’ispirazione sfarfalla frivola, lì intorno, giocando a nascondino, lasciandosi scoprire ed acchiappare per scherzo, con il fatuo gusto dell’inganno che rapisce i sensi. Tutti la credono una dea, però non lo è. Il punto è che l’Arte è una mera supposizione, di cui l’animo si nutre, illusoriamente, mentre muore di fame. Fame di affetto, di senso morale, di quel pizzico di ragione che serve a riordinare le idee e tener lontana la follia. Ed è anche un pretesto per potersi smarrire, mollando la presa del tempo, senza provare scrupoli. È il messaggio di carta velina strappata che questo film ci fa svolazzare davanti agli occhi: un filtro translucido che fa a brandelli la noia, sfrangiandola, impudente, in un abbozzo di assurdo. Passioni e gelosie a buon mercato si intrecciano, improvvisando una danza che zoppica. I corpi e le menti si lasciano travolgere dall’incongruenza, senza chiedersi se ne valga davvero la pena. In ballo non ci sono grandi emozioni, il turbine è quello a buon mercato di un party da ragazzi, di una festa di nozze, dove il divertimento si vende, si compra, oppure si dà via gratis come se niente fosse. La sregolatezza è una musa decaduta. Per la débauche manca a tutti la stoffa. Questo film non muove un dito per correre ai ripari, per rimediare in extremis quella parvenza di maledettismo che basterebbe a salvare la faccia. I vizi sono desolatamente diluiti nel ritegno domestico della quotidianità, della libertà codificata che ha consegnato anche le trasgressioni al voluminoso catalogo dei confilitti, delle situazioni tipiche di cui si tace, su cui si litiga, da cui si esce dopo aver terminato un percorso. A nulla valgono i ritocchi soffusi con cui, in un momento di puerile fantasticheria, si potrebbe cercare di sfumare i contorni dello squallore. La suggestione rimane stinta, esposta ai riflettori dei luoghi comuni della modernità, e delle cose selvagge e inconcluse di secoli fa. Indomita è solo la voglia ipotetica che la leggenda, la sfida, la lotta, siano davvero parenti dell’immortalità. E tale è anche la rabbia di scoprire che si tratta di una penosa bugia, che ognuno finisce per approdare ad un lido completamente terreno, o per naufragare lontano da ogni bellezza. La fragilità non serve. Il declino è un evento estemporaneo e meccanico, del tutto privo di carattere. La perdizione chiude per fallimento. La denuncia è inutile. La tristezza è scappata, senza nemmeno un addio. Intanto il racconto ci ha dolcemente accompagnato, in questa galleria a cielo aperto di ipotesi senza costrutto, di voli solo pensati, mai veramente creduti possibili. Il sapore finale è tiepido e acquoso. Troppo poco per poter dire di avere vissuto.
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