Regia di Milos Forman vedi scheda film
Per la molteplicità e la forza dei discorsi che lo attraversano, questo film è quasi più unico che raro. Nicholson e la Fletcher, i vari caratteristi (strepitosi) che danno vita agli ospiti del reparto e la mano di Forman sono indiscutibilmente essenziali, ma le fondamenta di tutto il film stanno in una storia (di Ken Kesey) dal potenziale straordinario. Cosa costituisca realmente follia non è qui materia di dibattito, lo è invece cosa si intenda per 'cura': le leggi, le istituzioni, i luoghi, le persone che hanno in mano le redini della 'cura' sono profondamente convinti della loro infallibilità: ma è davvero così che le cose stanno? Ovviamente no, perchè il ruolo di medico o di educatore (nei confronti di un paziente) e quello di repressore (che ha piuttosto a che fare con un sottomesso) non possono affatto coincidere e ciò che scorre in mezzo, la reale differenza fra rapporti tanto distanti si chiama dignità, ciò che è palesemente tolto con quieta indifferenza ai reclusi psichiatrici. Ma il film riflette su una vastissima serie di problematiche e fenomeni: dentro ci sono anche l'ordine sociale (l'organizzazione della vita nel reparto), le fragilità delle istituzioni repressive stesse (e la corruzione del potere, emblematizzata nella figura del guardiano), la simulazione come arma assolutamente umana, l'immortalità del desiderio di fuga e di libertà, l'inevitabile fine tragica dell'eroe positivo. E il finale appartiene di diritto alla storia del Cinema. 10/10.
Un delinquentello recidivo si finge matto per evitare la galera, ma viene trasferito in manicomio. Qui cerca di aizzare i vari ospiti contro la durissima ed intransigente caposala, mentre elabora un piano di fuga. Proprio quando sembra a un passo da farcela, viene fermato e lobotomizzato. L'unico che davvero lo aveva capito è un indiano gigantesco, sordomuto per rifiuto della società, che mette in atto il piano al posto suo.
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