Regia di Kristina Grozeva, Petar Valchanov vedi scheda film
Tzanko (Denolyubov), un ferroviere bulgaro, balbuziente e decisamente male in arnese, trova casualmente sulle rotaie una grandissima quantità di denaro, fuoriuscita da chissà dove. Senza neppure esitare, ne informa le autorità. Per questo gesto di encomiabile onestà viene ricompensato pubblicamente dal ministro dei trasporti, che gli regala un orologio. Per infilarlo al polso, Tzanko è costretto a dare in affidamento momentaneamente il suo Glory (la marca che è anche il titolo del film), un ricordo del padre con tanto di dedica incisa, a una giornalista rampante (Gosheva), arrogante, una iena insopportabile e isterica che sta seguendo una procedura per la fecondazione assistita (una sottotrama un po' troppo sottolineata). Il ferroviere vorrebbe soltanto riavere indietro il suo orologio e invece si trova invischiato, suo malgrado, in una vicenda kafkiana che lo porterà alla prigione per avere denunciato pubblicamente il silenzio del ministro dei trasporti sui continui furti di nafta che si verificano nelle ferrovie di stato.
Apologo amarissimo, sconsolato e senza happy end sull'impossibilità non solo di essere deboli, diversi, male attrezzati, ma persino normali, onesti, limpidi. La regia riesce a far sentire tutta la puzza di zolfo lasciata dai regimi comunisti, come se il giornalismo fosse ancora un'estensione della Pravda e il Moloch del potere costituito dalla caduta del muro di Berlino a oggi non fosse arretrato di un solo millimetro, a tutto svantaggio degli ultimi. Un esempio di cinema civile come potrebbero farne Loach o i Dardenne, che pecca soltanto nel tratteggio eccessivamente manicheo dei personaggi e nel proporre un proprio teorema senza lasciare aperto alcuno spiraglio per soluzioni narrative un po' più spiazzanti.
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