Regia di Emanuela Audisio vedi scheda film
Frammenti. Testimonianze sparse. Un omaggio, sotto forma di collage, ad un geniale collezionista di timide emozioni e semplici verità raccolte per strada.
Ci sono artisti schivi e riservati, che vivono muti e nascosti. E ve ne sono altri, invece, la cui anima deborda nel mondo. Pasolini riempiva la realtà con il suo corpo, ricolmo di desideri gioiosi, carico di curiosità bambine. Un fisico spigoloso come la volontà limpida e dura, che non ammette compromessi o cedimenti, ma pieno di una dolcissima musicalità danzante, delicata come l’amore che vuole anzitutto conoscere l’altro e farsi suo umile servitore. Il documentario di Emanuela Audisio restituisce a Pier Paolo lo slancio di quell’eros platonico che l’aveva spinto ad abbracciare l’universo, a mettere in luce le sue ferite, a fare delle sue urla una poesia nel contempo ammonitrice e incantatrice, didascalica e sublime. Ora l’invito è rivolto a noi, affinché gli andiamo incontro per scoprire, dietro i lineamenti tormentati e severi della sua figura, quella voglia primigenia che è grazia incontaminata, originale e, per sua natura, diversa da tutto il resto. È un’energia che non si lascia incanalare, né disciplinare né reprimere, e diventa nemica solo perché unica, refrattaria all’uniformità, estranea all’ipocrisia che fa da presupposto alle norme sociali. Per scoprirla, dobbiamo dismettere i panni degli ascoltatori seriali, che si cibano di racconti come si fa con i sogni e con le abitudini, ossia consumando fantasie e piaceri ridotti a quotidiane pratiche consolatorie. Qui la narrazione è una successione di strappi alla regola, di interruzioni del senso logico, di squarci di orrore e sorpresa che lacerano il velo del mito, per costringerci ad aguzzare la vista, ad affinare il pensiero, lasciando che il risaputo esibisca il suo lato ignoto e magari scomodo. Colui che vorremmo immortale, dobbiamo vederlo cadavere. Il laico per antonomasia si trova a mostrare la sua profonda religiosità. Il serio accusatore si trasforma in un amante del gioco, delle favole, di ciò che fa bene al cuore e però non serve a nulla. Il grande uomo piange per amore, in fondo ad una chiesa, mentre in ogni donna vede il volto di sua madre. Il filosofo sceglie non in base a quel che crede vero e giusto, ma in base a ciò che gli sembra bello, anche se è povero di tutto, soprattutto di linguaggio e di sapienza, e non dice nulla di importante. È il suo gusto personale, a indurre il poeta a scavare con le mani nella polvere delle periferie, a graffiare lo schermo con i profili taglienti di un’umanità sofferente, il cui dolore non ha niente di nobile, perché è banale e scomposto, come si addice alla carne. Il paesaggio del regista è fatto delle sue forme preferite, dei suoi colori prediletti, degli elementi di un’iconografia plasticamente lugubre, della quale, un tempo, da studente di storia dell’arte, si era innamorato. La teoria rimane fuori dal discorso; infatti le idee nascono da dentro, dalle emozioni prive di schema, dagli schizzi che non è possibile catalogare, né mettere in cornice. La stessa eredità del martire è un cumulo di pezzi, raccolti malamente in un cartone. Anche i ricordi sono sparsi. Tra loro non c’è sintesi, perché le voci dei superstiti vogliono continuare ad andare ognuna per la propria strada. Manca la coralità della nostalgia comune, l’atmosfera commovente della celebrazione dedicata all’eroe di tutti: del resto Pasolini non avrebbe mai partecipato ad una festa a tema, a una manifestazione organizzata. La sua era una militanza senza programma, una ricerca senza strategia. Era la libertà del viaggiatore che attraversa i luoghi in solitario, senza preoccuparsi di arrivare da nessuna parte. Il motore di un’esistenza itinerante che forse, davvero, non poteva giungere a compimento. Una parabola antica, ma proiettata verso il futuro, che non poteva chiudersi sul senso complessivo di un tempo concluso.
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