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Chi l'ha vista morire?

Regia di Aldo Lado vedi scheda film

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La recensione su Chi l'ha vista morire?

di alan smithee
7 stelle

Una Venezia bigia e tetra clamorosamente anticipatrice di quell’insuperato capolavoro di cattiveria e malvagità che fu Don’t look now (A Venezia…un dicembre rosso shocking, del 1973) di Nicholas Roeg, da cui il celebre regista britannico riprende pure sfacciatamente le dinamiche almeno generali della vicenda (l’uccisione di una bambina da parte di uno psicopatico seriale), accoglie un celebrato scultore americano a cui fa visita la figlia decenne, avuta da una relazione ormai agli sgoccioli con una avvenente olandese.

L’omicidio della bimba, ritrovata senza vita tra i flutti di un canale, annegata e seviziata, getta nel comprensibile sconforto l’artista che, per l’occasione, si ricongiunge con la splendida consorte, sopraggiunta in Laguna per le esequie, e si improvvisa detective, considerando che la polizia brancola nel buio, pur avendo riconosciuto nell’operato dell’anonimo assassino, il comportamento seriale di un maniaco già tristemente noto in quei lidi limacciosi ed oscuri.

Chi l’ha vista morire celebra alla grande, in modo sfolgorante e una messa in scena esuberante e riuscita, una fortunata stagione italiana dedicata al thriller cupo con tinte noir orrorifiche, iniziata da Dario Argento col suo celebrato Uccello dalle pieme di cristallo; un genere che qui la particolare ambientazione lagunare, torva ed affascinante, esalta, alimentadone suggestione e spettacolarità.

La storia, bisogna ammetterlo, è grossolana e scritta con una buona dose di approssimazione, soprattutto nel suo frettoloso e concitato epilogo, ma ha almeno due grandi meriti al suo interno, oltre che un ottimo incipit sulle nevi che spicca per tensione e crudeltà: la capacità di Aldo Lado di rendere sporca, anzi lurida,  una vicenda dove l’innocenza dell’infanzia cede il posto alla provocazione dirompente ed inconsapevole, incauta ma involontaria di quella fragile, instabile età; circostanza che se da un lato non giustifica (come potrebbe mai!) le efferatezze compiute dall’anonimo assassino, da una parte, chissà se consapevolmente, quasi tenta se non di giustificare, quanto meno di comprendere l’atteggiamento disturbato dell’assassino, alimentato dalla propensione alla corruzione generata da atti e comportamenti che la sguaiata vitalità della gioventù a volte provoca.

Altra freccia preziosa messa a segno dal pur valido thriller è la colonna sonora assurda, urlata e petulante: una cantilena ossessiva, improbabile soprattutto quando viene messa in bocca ai ritornelli melodiosi dei gruppi di monelli che affollano le calli veneziane: l’infanzia perfida e smaliziata che intona un ricorrente ed incongruo “Chi l’ha vista morire” come fosse una filastrocca innocente, un refrain smodato ed insistente che un Ennio Morricone incontenibile (che anticipa validamente un meno eccentrico Pino Donaggio del capolavoro di Roeg già citato) sparge senza apparente controllo, ma in modo esemplare, lungo tutto il corso della pellicola.

Tra gli attori coinvolti, un George Lazenby smagrito ma credibile e particolarmente espressivo sembra tenti in tutti i modi di cancellare le tracce del muscoloso bisteccone che caratterizzò un paio di anni prima la sua discussa interpretazione dell’agente con licenza d’uccidere nel pur valido episodio targato Peter Hunt. 

Viceversa Anita Strimberg, svedesona mozzafiato bella almeno quanto Ursula Andress o Bo Derek, è davvero monocorde e poco plausibile ad interpretare nella fissità del suo volto perfetto il dolore di una madre a cui uccidono una figlia.

Rimanendo in zona “bondiana”, preziosa risulta la presenza di Adolfo Celi, e ugualmente di valore risulta il coinvolgimento di Alessandro Haber: entrambi caratteristi preziosi, uno presente solo per fare vetrina, l’altro invece titolare di un ruolo davvero fondamentale.

 

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