Regia di Johnny Ma vedi scheda film
Un tassista causa un incidente, salva una vita, e poi finisce in disgrazia. La storia è perversa. Ma non lo è fino in fondo.
Voleva essere un dramma. Magari anche un polemico ritratto sociale della Cina dei giorni nostri. La vicenda di un tassista finito materialmente e moralmente in rovina in seguito ad un incidente stradale resta confinata nella sua miseria, ancorata al luogo comune della disgrazia che capita sempre ai più deboli, mentre il mondo tutto intorno fa baldoria e continua a coltivare le sue futili gioie e i suoi sporchi affari. L’ambiente è ostile e diroccato, come sa esserlo solo il vecchiume troppo rapidamente aggredito dalla modernità, dallo stress dell’efficienza, dall’ubriachezza della libertà. Il quadro è ruvidamente desolante, ma risulta affetto da una maldestra incrostazione di grottesco che fa fuggire l’empatia, e in parte fa incagliare la tensione. Il protagonista Lao Shi rimane inchiodato al suo deprimente ruolo di povero diavolo, personaggio incolore di una metropoli di cartapesta, in cui il progresso è una messinscena in costume (le uniformi dei poliziotti, i camici delle infermiere), vistosamente supportata dagli arredi tecnologici (i televisori a cristalli liquidi, gli smartphone, le apparecchiature mediche). Il contesto appare finto e dissonante, ma per errore, in un’opera che sembrerebbe invece votata al realismo, nella sua chiara intenzione di denunciare l’ipocrisia e i paradossi di un Paese che si è svegliato dal totalitarismo solo per immergersi in un liberalismo già degenerato in partenza. In questa storia, il brutto della vita non riesce a esserlo per davvero. I contrasti si direbbero costruiti ad arte, nel modo in cui giocano all’eccesso per una sorta di perfido esibizionismo, anziché presentarsi come espressioni autenticamente ciniche. E così, in uno squallore senz’anima, a tratti si vedono inopinatamente brillare i lampi tendenti al kitsch del thriller di cassetta, con colpi di scena indecisi tra le svolte rassicuranti della favola televisiva e gli acuti spiazzanti dell’horror made in Asia. Questo film – è inutile - non si lascia prendere sul serio, si mantiene inafferrabile alla mente e al cuore, mentre continua a sgusciare tra le mani in virtù della sua viscida inconsistenza. È proprio un peccato non poterlo amare, non poter cogliere, nella sua determinazione a raccontare minuziosamente i fatti, una voce che sappia compiutamente parlare alla coscienza o al sentimento. La vecchia roccia del titolo è la statua senza vita di una sofferenza a cui non si crede del tutto. Perché sembra forse banalmente evitabile, forse non sinceramente vissuta, forse meritevole di essere meglio calata nella carne umana, che è sì fragile e imperfetta, ma non è la sostanza di mostri e fantocci.
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