Regia di Wang Bing vedi scheda film
Un popolo in fuga, senza casa e senza meta, ma padrone assoluto dello spazio e del tempo.
Non li conosce nessuno. Ma sono quasi un milione. Hanno la pelle di bronzo e gli occhi a mandorla. Sono un popolo in cammino, in fuga dalla guerra civile, perduto eppure unito, in una esistenza che attraversa ogni luogo, che si sposta continuamente da una parte all’altra del confine. I Ta’ang sono scappati dalla regione birmana del Kokang, nel momento in cui l’esercito l’ha invasa, andando a caccia dei ribelli. Donne dalle vesti colorate – con i costumi tradizionali o con i capi fiorati dell’ultima moda globale – bambini, fagotti, coperte ed animali si sono messi in viaggio, per trovare rifugio sulla rive di un fiume, ai margini di una città, nei pressi di una piantagione di canne da zucchero. Riescono ad abitare ovunque, in case fatte di tronchi e teloni, mangiando con le mani, lavandosi nell’acqua fangosa, cucinando e scaldandosi il corpo e l’anima sulle fiamme di un fuoco da campo. Rimangono comunque loro stessi, con la loro lingua ricca di sfumature sonore che fanno da controcanto alle cadenze lamentose o sorridenti, sempre cariche di musicale poesia. Se questo film parlasse di persone come noi, sarebbe un reality. Se la quotidianità ritratta fosse quella della nostra routine o delle nostre farse mediatiche, questo racconto sarebbe una banalissima cronaca. Solo che, in questo caso, manca del tutto la stanchezza di cui si alimentano i format televisivi, che in virtù di essa riescono a svendere la noia e il vuoto come un carezzevole trastullo da prima serata. I Ta’ang hanno percorso chilometri a piedi, con i bambini attaccati alla schiena, sotto il peso di enormi borsoni e sacchi di riso, hanno fatto e disfatto decine di capanne e baracche, hanno lavorato qua e là, hanno cambiato padrone, si sono separati e ritrovati, eppure sono forti, freschi, instancabili narratori di vicende personali e di sogni fuori dal tempo. L’obiettivo di Wang Bing non ha bisogno di mettersi alla ricerca dei soggetti, dei dialoghi, degli eventi da inquadrare: può placidamente riposare, lasciando che siano loro a creare la storia, con la loro semplice presenza, a tratti immobile nella contemplazione di un ricordo o di una speranza, ma sempre aperta al mondo, accesa dalla voglia di comunicare, di confidare timori e desideri. I loro insediamenti sono tanti piccoli centri dell’universo, da dove partono le telefonate che, attraversando la frontiera, riportano il cuore al passato di una casa abbandonata, di amici e parenti che sono rimasti indietro, di cose che non si rivedranno più. Lo sguardo dei Ta’ang punta sempre lontano, anche quando si fa notte e tutto intorno è buio. In mezzo a loro c’è una vivida e luminosa idea dell’attesa, della pazienza, del divenire, che non smette mai di bruciare e di consumare l’attimo, offrendolo in sacrificio all’eternità. Il presente è un nulla per chi non ha fede, per tutti gli altri è il dolcissimo calore dell’intimità condivisa, che tinge i volti di un bagliore dorato e ne scolpisce le espressioni nella languida e fremente atmosfera del crepuscolo. Seguire i Ta-Ang significa assecondare il profondo battito del cosmo, lento, sereno e determinato, che non corre e non si inquieta, perché sa sempre che ore sono, e quanto manca ancora alla fine del tragitto.
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