Regia di Thierry Demaizière, Alban Teurlai vedi scheda film
C'è Rocco Siffredi, icona indiscussa e inarrivabile del cinema porno tricolore. E poi c'è un film su di lui, girato da due cineasti francesi interessati a indagare l'unico fenomeno maschile del mondo dell'hard che sia stato capace di diventare fenomeno di costume, come era successo soltanto a John Holmes per via delle sue misure leggendarie. Non si sa se sia peggio il documentario o la retorica, l'emotività posticcia, le balle a propulsione termonucleare (il pornodivo dichiara di essere in procinto di lasciare le scene, salvo essersi smentito a pochi mesi dall'editing del documentario), la versione artefatta della famiglia da Mulino Bianco, i ricordi della madre "carabiniere" eppure amatissima, che avrebbe voluto vederlo prete. Nel film non c'è un solo riferimento alla carriera né al percorso che ha portato Rocco Tano (questo il suo nome all'anagrafe), figlio di una numerosa famiglia abruzzese di origini umili, sui set del cinema porno. Il film è una successione indistinta e letargica di scene riprese sul set, in automobile o in qualsiasi altra anonima location, prive di una sintassi minimamente leggibile, intervallate dalle dichiarazioni sempre lapidarie del protagonista, uno che si prende terribilmente sul serio, incapace di un minimo di ironia. Tra ragazzine cerebrolese e spesso fisicamente ipodotate sotto ogni aspetto, che calcano il set sperando di diventare delle star dell'hardcore, e un cugino parassita che ha lasciato il lavoro in banca per diventare l'assistente incapace e oggetto di continue rampognate di Siffredi, per un'ora e quaranta ci sorbiamo storielline inverosimili (il sesso a 8 anni, quello con una donna ottantenne fatto immediatamente dopo aver saputo della morte della madre) e racconti ruspanti di chi ha fatto sesso in modo piuttosto energico, a voler usare un eufemismo e nulla più. Prodotto di una noia mortale nel quale l'erotismo, grande assente, lascia completamente il campo a una mefitica aria da catena di montaggio del sesso.
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