Regia di Lisa Azuelos vedi scheda film
Sex symbol talentuosa e donna fragile ed irrisolta: la vita di Dalida è un film coinvolgente e senza freni:tutta un'antitesi dove il successo senza sosta non si cura della persona sottostante che finisce per cedere.Biopic tradizionale ben fatto,forte di interpreti ben scelti e validamente diretti da una regista che celebra degnamente diva e donna
La vita, non lunga, ma di certo intensa, pure sotto diversi punti di vista, di Iolanda Cristina Gigliotti, in arte Dalida, è già di suo cinema allo stato puro: entro un contesto etnico variegato che la vede ritrovarsi a vivere, da figlia di immigrati calabresi, in Egitto, nata con le bende agli occhi e placidamente accompagnata dalla musica del padre melomane, poi bambina strabica derisa dai crudeli compagni di scuola, fino a tramutarsi da anatroccolo a cigno dalle forme perfette, evocatore di un mix di sensualità, amori e passionalità sfrenata; una vita di successi, sex symbol dotata di talento oltre che di avvenenza.
Sensualità del corpo come della voce, che nel corso di una carriera gestita con freddezza ma con molto criterio dal fratello Bruno, riesce a portare l’artista ad affrontare autori e cantautori della tradizione italiana, francese e internazionale, fino a passare ai registri della dance music, da metà anni ’70, fino al successo strepitoso a teatro nelle tournée americane.
Una vita privata contrassegnata da una ricerca ossessiva dell’amore completo, e proprio per questo irraggiungibile, che la rende quasi sempre epicentro di storie, coniugali e non, tutte tormentate e controverse, caratterizzate ed alimentate dalla forte sensualità, ma dalla breve effimera durata.
Ma anche, o soprattutto, una vita contrassegnata dalla sofferenza, dalla depressione, dall’apatia e dall’anoressia; tutte circostanze drammatiche acuite da scelte spesso sbagliate, fuori luogo, o intraprese nel momento sbagliato (tra queste la decisione impulsiva di abortire dopo l’amore fugace, impossibile da ufficializzare, ma intenso e finalmente condiviso con uno studente più giovane di lei di oltre dieci anni, per poi trovarsi, proprio a causa di ciò, sterile negli anni della piena maturità fisica).
Dalla luce del successo sui palchi dove appariva statuaria e perfetta come una dea, alla solitudine del ritrovarsi senza un uomo, senza una discendenza, senza una famiglia su cui poggiarsi per difendersi ogni qualvolta la ribalta si abbassa e l’artista Dalida torna ad essere la Iolanda irrisolta e depressa dei tempi crudeli della scuola..
Una vita inseguita dallo spettro della morte, che si manifesta con particolare ossessivo rituale attraverso la forma del suicidio, circostanza che attraversa continuamente la vita sua (tre almeno, di cui l’ultimo fatale, i tentativi di suicidio in capo alla cantante) e quella dei molti uomini che percorrono i tumultuosi palcoscenici di vita di un personaggio che più di molti altri ha sempre saputo, coscientemente o meno, salire alla ribalta sia per le innegabili doti artistiche e fisiche, sia per essere un centro di attrazione nevralgico per quanto riguarda l’ambito privato, perfetto per finire in pasto di rotocalchi rosa e sipari giornalistici senza pietà alcuna.
Il biopic classico e non proprio stilisticamente innovativo a cura della regista franco-marocchina Lisa Azuelos, già attiva con almeno 4/5 film, in realtà non proprio indimenticabili, si rivela presto, dopo una prima buona mezz’ora necessaria per ambientarsi nei giusti contesti, una operazione coinvolgente, quasi appassionante (lo scrivo con un pizzico di imbarazzo, ma il sentimento e l’approccio avvertito durante la visione si sono diretti in questo senso).
Diligentemente ed accuratamente ambientata in un contesto storico che percorre quasi un cinquantennio di trasformazioni della società, di evoluzione del gossip e di avvento uno stile di giornalismo scandalistico che comincia proprio in quegli anni a lanciare divismi sfranati, e in senso opposto a bruciare prematuramente e crudelmente le sue prime vittime, la vita a senso alternato della diva eccelsa e potente, amata e riverita come una dea, ma sfortunata, sfruttata e non valorizzata come moglie e donna di famiglia compiuta e realizzata, diviene un percorso che alterna luci ed ombre ad intermittenza, che non trovano mai le mezze misure: quelle che sono spesso le garanti della realizzazione vera, genuina, e senza necessità di corrispettivi o compromessi.
Importante, anzi fondamentale per la riuscita del film, si rivela, lo si capisce davvero presto, la scelta perfetta, azzeccatissima, dell’attrice chiamata ad impersonare la diva triste, che trova nel corpo statuario e sinuoso dell’ex modella Sveva Alviti, nel suo sguardo aguzzo e melanconico, nei suoi occhi profondi e penetranti, la sua più efficace, stordente e realistica trasposizione cinematografica.
La affiancano, tutti coinvolti ed efficaci, uno stuolo di attori, spesso giovani e belli, che contribuiscono a dar vita al variegato “parco uomini” che contraddistinse la tormentata vita sentimentale della cantante: dal direttore radiofonico Lucien Morisse (interpretato da Jean-Paul Rouve), suo primo marito, al giovane pittore polacco Jean Sobieski (il biondo Niels Schneider), a Luigi Tenco, of course, reso con efficace torva prova di sguardi dal talentuoso Alessandro Borghi, fino ad arrivare alla sua relazione più lunga, durata quasi un decennio, con lo sciroccato e mantenuto Richard Chanfray (lo interpreta con piglio l’affezionato attore di Claire Denis, Nicolas Duvachelle), passando anche attraverso l’amore “giovanile” (lei 34enne. Lui di soli 22 – scandalo assicurato per l’epoca) per uno studente di letteratura appassionato di Tenco, interpretato da Brenno Placido.
Ma l’uomo fondamentale per la vita della cantante resta Bruno, anzi Orlando (nome d’arte rubato al fratello maggiore, che egli utilizzò anche per tentare di lanciare in prima persona, ma senza particolare seguito, nel mondo della canzone), fratello minore che le fece, nel bene certo, ma non senza pensare con particolare fissazione all’aspetto economico, da manager esclusivo: lo interpreta, nel ruolo fondamentale del film, dopo quello della protagonista, ovviamente, un pertinente e credibile Riccardo Scamarcio, che si adopera a rendere le sfaccettature di una personalità che da una parte vive di luce riflessa, dall’altra tenta la strada del protagonismo, utilizzando tuttavia una identità che non è la sua ma appartiene al primogenito, completamente al di fuori del percorso musicale dei due.
Dalida non cerca soluzioni innovative, gioca (piuttosto bene) le sue carte puntando sul cast appropriato e su una ricostruzione d’epoca fedele e credibile; ci mostra la cortina evanescente della fama che va e, nel caso della diva, resta, ma anche la crudele solitudine che prende la celebrità ogni volta che, smessi i panni del divismo, la donna tenta di vivere una propria vita fatta di cose comuni, semplici, naturali, da condividere con qualcuno a cui si vuole bene veramente e senza doppi fini.
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